Il Paese d’Abbastanza e l’Impero degli Undici Fusi

foto p.Capitini

In un paese non troppo lontano viveva un re, anzi un Imperatore. Aveva un brutto carattere, l’Imperatore, almeno così dicevano in molti. Parlava poco e ascoltava molto ma soprattutto guardava tutti con occhietti piccoli e fissi, del colore del ghiaccio che fonde. Sorrideva di rado e di solito non era un buon segno. L’Imperatore governava un paese immenso, così tanto immenso che quando a un capo iniziava ad albeggiare dall’altro era già ora di andare a dormire. Nell’Impero c’erano undici fusi orari tant’è che la gente lo aveva chiamato l’Impero degli Undici Fusi.

Un paese cosi grande – direte voi – sarà stato così potente da non temere nulla e nessuno. E invece no. L’Imperatore, come quello che l’aveva preceduto e quello prima ancora, aveva una gran paura che il resto del mondo se la prendesse con lui. Sarà stato per via del brutto carattere, ma l’Imperatore non voleva gente vicino, soprattutto gente che non poteva controllare.

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Ora, vicino all’Impero degli Undici Fusi c’era un paese abbastanza grande, abbastanza libero, abbastanza ricco tanto che tutti lo chiamavano il Paese di Abbastanza. La gente del Paese di Abbastanza non era poi così diversa dai sudditi dell’Impero degli Undici Fusi, anzi nei tempi passati il Paese di Abbastanza aveva fatto addirittura parte dell’Impero, ma ormai le cose erano cambiate o almeno così credevano gli abitanti del Paese di Abbastanza. Ne erano così tanto persuasi che da qualche anno avevano preso a mal tollerare i cittadini che nel Paese di Abbastanza avevano qualche legame con l’Impero degli Undici Fusi. Un sopruso oggi e uno domani era andata a finire che nel Paese dell’Abbastanza era scoppiata una specie di guerra tra cittadini che dicevano di essere i veri cittadini di Abbastanza e quelli che invece per via dei nonni e dei bisnonni avevano radici e lingue nell’Impero degli Undici Fusi. La cosa era iniziata pian piano ma sapete com’è la guerra, una fucilata tira l’altra e una cannonata tira l’altra e la cosa s’era fatta pericolosa.

Il Paese di Abbastanza non aveva un Imperatore Scorbutico ma un Presidente Simpatico. Era giovane, aveva fatto l’attore e sorrideva sempre. Restava simpatico a tutti meno che all’Imperatore scorbutico, ma si sa, non si può essere simpatici a tutti. Per via di questa antipatia e anche perché un po’ di paura l’Impero degli Undici Fusi, grande e grosso com’era, la metteva davvero, il Presidente Simpatico aveva pensato di farsi dei nuovi amici, ma non amici qualsiasi, per carità: ci volevano amici grandi e grossi che potessero anche far paura all’Imperatore scorbutico.

Matriosche – foto p.Capitini

Non dovette neppure cercare tanto perché appena ebbe detto che era alla ricerca di nuovi amici subito se ne presentarono parecchi. Il più importante e grande di questi viveva al di là dell’oceano, oltre il tramonto. Era un bel paese quello, pieno di fiumi e strade e montagne e di gente felice di tutti i colori. Avevano un sacco di soldi, la CocaCola e il cinema. La gente lo chiamava il Paese d’Oltremare. Anche il Paese d’Oltremare aveva un Presidente, certo non simpatico come quello del Paese di Abbastanza ma che faceva comunque la sua figura. Il Paese d’Oltremare aveva un sacco di amici, tutti paesi più piccoli che dicevano un gran bene del Paese d’Oltremare e che, quasi sempre, si trovavano d’accordo con quello che pensava il loro Presidente. Quando il Presidente Simpatico del Paese di Abbastanza chiese al Presidente del Paese d’Oltremare di stringere amicizia, questi aveva subito detto di si e anche tutti i suoi amici avevano anch’essi detto di si e siccome erano diventati amici inziarono a mandargli armi, cannoni, soldi e un po’ di gente che gli avrebbe spiegato come si usavano. A parte i soldi che quelli tutti sapevano come usarli.

Ora c’è da dire che per una vecchia faccenda che ora non ricordo l’Imperatore degli Undici Fusi e il Presidente del Paese d’Oltremare non si potevano vedere e non mancavano occasione di farsi dispetti. Erano andati avanti così per anni e nessuno in fondo se ne era preoccupato più di tanto. Però che il Paese di Abbastanza fosse diventato così amico del Paese d’Oltremare all’Imperatore scorbutico non era proprio andata giù. Come era sua abitudine aveva avvertito il Presidente Simpatico e anche tutti gli altri che quella cosa non gli piaceva per niente e che forse sarebbe stato meglio se quell’amicizia fosse stata un po’ meno stretta. Diciamo che una conoscenza educata sarebbe anche andata bene. L’aveva ripetuto un sacco di volte, ma ogni volta il Presidente del Paese d’Oltremare e tutti i suoi amici non lo prendevano sul serio e anzi gli rispondevano che loro avrebbero fatto quel che volevano e che si mettesse pure l’anima in pace.

Oltre ad essere scorbutico l’Imperatore era anche parecchio permaloso, più permaloso della media degli imperatori. Aveva anche un bell’esercito, grande e grosso. Certo non grande e grosso come quello del Presidente del Paese d’Oltremare ma comunque era pur sempre un esercito di tutto rispetto. Fu così che una sera d’inverno l’Imperatore degli Undici Fusi decise di invadere il Paese di Abbastanza. Nessuno se l’aspettava perché le guerre, in quella parte di mondo, erano passate di moda, ma si sa, l’Imperatore era uno all’antica così aveva iniziato una guerra all’antica di quelle con tanti carri armati, cannoni e aerei e bombe tirate qua e là.

Il Presidente Simpatico del Paese di Abbastanza non la prese affatto bene, anzi. E visto che anche lui in fondo era un tipo tosto iniziò a far la guerra anche lui. Il Presidente del Paese d’Oltremare e tutti i suoi amici giurarono e spergiurarono di aiutare il Paese di Abbastanza con tutto quello che sarebbe servito a fare una guerra: bombe, armi, soldi, cannoni… tutto. Ma non era bastato. Si erano anche messi d’accordo per una cosa chiamata “sanzioni” che in pratica consiste nel non comprare né vendere niente all’Impero degli Undici Fusi. L’idea era che senza più comprare o vendergli niente ben presto l’Impero sarebbe diventato povero, ma così povero da non aver più soldi per fare la guerra. Tutti applaudirono soddisfatti. A dire il vero qualcuno tra gli amici del Presidente d’Oltremare fece presente che non vendendo né comprando niente anche loro, gli amici, ci avrebbero rimesso, e anche tanto. Tuttavia non ci fu nulla da fare: era una questione di principio e si sa come vanno queste cose; quando una cosa diventa una questione di principio…

foto p.Capitini

Qualcun altro fece anche presente che tutte le fabbriche, l’elettricità e anche i fornelli degli amici del Presidente d’Oltremare funzionavano perché l’Imperatore Scorbutico mandava loro il gas. Certo, essendo scorbutico e permaloso non lo faceva gratis, voleva essere pagato, ma a onor del vero, l’Imperatore aveva sempre continuato a mandarlo senza perdere un giorno; almeno fintanto che avevano continuato a pagarglielo. Ora però c’erano le sanzioni e il gas non si poteva più prendere. Comprare gas da un imperatore scorbutico, permaloso e che faceva la guerra era davvero una cosa brutta. “Non vi preoccupate” – sentenziò felice il Presidente del Paese d’Oltremare– “Il gas ve lo mando io, certo che capirete come venendo il gas da molto lontano vi costerà qualche soldo in più”. Tutti gli amici assentirono. Alcuni sembrarono poco convinti ma assentirono lo stesso per non fare brutta figura. Il gas più caro che veniva dal Paese d’Oltremare comunque non bastava così tutti gli amici si affrettarono a comprarne altro da altri paesi brutti, sporchi e cattivi quanto e più dell’Impero degli Undici Fusi, ma come si è detto; era una questione di principio.

Intanto la guerra dell’Imperatore al Paese di Abbastanza andava avanti. Tutti erano sicuri che il Presidente Simpatico avrebbe vinto, anzi trionfato e continuavano a mandargli armi e cannoni, e più ne mandavano più la guerra andava avanti. Anche l’Imperatore e il suo esercito andavano avanti, piano piano, un chilometro alla volta e i soldati del Paese di Abbastanza, per quanto coraggiosi, si ritiravano un chilometro alla volta.

foto p.Capitini

Si andò avanti così per giorni e giorni e poi per mesi con i soldati dell’Imperatore che spingevano e morivano e quelli del Presidente Simpatico che si ritiravano e morivano anche loro. Anche le sanzioni del Presidente d’Oltreoceano e dei suoi amici continuarono giorno dopo giorno sempre convinti che questo avrebbe fermato l’Imperatore.

Venne poi un giorno, poteva essere un martedì mattina o forse un mercoledì, che i soldati del Presidente Simpatico, visto che malgrado l’impegno, il coraggio e le armi nuove e bellissime che gli aveva fornito il Presidente d’Oltroceano non riuscivano a vincere, decisero che non volevano più morire. Lo decisero prima in pochi, poi sempre di più e infine tutto l’esercito del Presidente Simpatico decise che ne aveva avuto abbastanza e che da quel momento in poi non avrebbero più combattuto e se ne sarebbero tornati a casa loro.

La decisione di quel martedì mattina sorprese tutti, ma accade sempre così con la guerra di usura, dagli oggi e dagli domani dopo un po’ di tempo non rimane più nulla da usurare. La fine della guerra sorprese il Presidente d’Oltreoceano, tutti i suoi amici e anche il Presidente del Paese d’Abbastanza anche se lui un po’ meno. L’unico che non fu sorpreso fu l’Imperatore. Da mesi infatti aveva pensato e fatto proprio quello. Indebolire goccia a goccia l’esercito del Paese di Abbastanza. Insomma un martedì mattina o forse un mercoledì ci si accorse che l’Imperatore scorbutico aveva vinto. Non era diventato più povero, non aveva perso nessuna battaglia e neppure il suo popolo l’aveva buttato giù così come avevano pensato e a un certo punto solo sperato il Presidente di Oltreoceano e tutti i suoi amici. L’imperatore aveva semplicemente vinto.

E adesso? Dipinto come un mostro senza alcun sentimento, al di là del confine che separava il Paese di Abbastanza da quelli degli amici del Presidente d’Oltreoceano tutti pensarono che a questo punto l’Imperatore si sarebbe vendicato, avrebbe ucciso, deportato, incendiato e altre cose che normalmente fanno gli Imperatori. E invece no. L’imperatore si fermò sulla riva del grande fiume che da nord a sud divideva il Paese di Abbastanza. Si fermò; i carri armati spensero i motori, i cannoni abbassarono le canne e anche i soldati si sedettero sotto un albero a fumare. D’improvviso il silenzio che per tanti mesi era fuggito da quei posti tornò ad abitarne i prati e le macerie. “che strano” – pensò l’Imperatore scorbutico – “in fondo il primo segno della pace è il silenzio. Qualcuno ricordò allora all’Imperatore che non si può fare la pace da soli e che si deve fare con il nemico. Vennero dunque mandati messi e ambasciatori verso il Paese di Abbastanza per trovare il Presidente Simpatico e iniziare a negoziare.

foto p.Capitini

Cerca, cerca però il Presidente Simpatico non si trovava. Da quando il suo esercito aveva deciso di smettere di combattere e metà del paese era finito in mano all’Imperatore era scomparso. C’era chi diceva fosse volato via con un elicottero verso il Paese d’Oltreoceano, chi invece giurava che si fosse sparato. Resta il fatto che in tutto il Paese di Abbastanza non si trovava un solo presidente con cui parlare. All’imperatore venne in mente una soluzione semplice che aveva sempre funzionato in passato. “Facciamo delle elezioni così avremo un nuovo presidente”. A dire il vero la gente del Paese di Abbastanza non si fidava troppo di elezioni organizzate dall’Imperatore scorbutico, ma d’altra parte era lui che aveva vinto e una dei vantaggi di vincere rispetto a perdere è che puoi fare quello che ti pare. Vennero quindi indette nuove elezioni libere. Fu una cosa seria tanto che fu lo stesso Imperatore scorbutico, proprio lui, a scegliere uno per uno i tre candidati. Vinse il numero due che venne subito proclamato Presidente del Paese di Abbastanza e siccome era amico del cugino dell’Imperatore e non voleva dispiacerlo, firmò tutto quello che c’era da firmare, consegnò tutto ciò che c’era da consegnare e giurò tutto quello che c’era da giurare. La banda suonò e la bandiera salì sul pennone.

Tra le cose che il nuovo presidente aveva giurato c’era che mai e poi mai avrebbe chiesto niente al Presidente d’Oltreoceano e ai suoi amici. Non avrebbe accettato neppure regali. Questo offese moltissimo il Presidente d’Oltreoceano che si mise a urlare, minacciare, intimidire e schierò un grande esercito proprio attaccato al confine dell’Impero degli Undici Fusi. L’Imperatore non la prese bene e i due ripresero a litigare come avevano sempre fatto, solo che adesso l’imperatore poteva dire al Presidente che aveva vinto e che quindi tutta quella storia di mandare armi, cannoni, soldi e gente al Presidente Simpatico non aveva funzionato. E non aveva funzionato nemmeno non vendergli né comprargli più nulla visto che nel frattempo l’Imperatore aveva trovato altri regni e imperi a cui vendere tutto quello che aveva. L’imperatore aveva infatti ferro, legno, carbone, oro in gran quantità ma ancor più aveva petrolio e gas e, si sa, quando hai oro, petrolio e gas si trova sempre qualcuno disposto a comprarli. A qualcuno venne in mente che anche i paesi amici del Presidente di Oltremare avevano bisogno di gas visto che in tutti quei mesi in cui sbraitavano e condannavano non erano riusciti a riempire le scorte e l’inverno appariva lungo e freddo. Qualcun altro propose al Presidente di Oltremare che forse era il caso che si iniziasse a parlare con l’Imperatore scorbutico proprio perché l’inverno si annunciava freddo e nevoso, ma il Presidente non volle sentir ragioni. Un paio di persone fecero però notare che faceva presto lui a parlare così. Lui il gas e il petrolio ne aveva quanto ne voleva, anzi lo vendeva addirittura ai suoi amici. A dire il vero lo vendeva anche più caro di quello dell’Imperatore. Pian piano tutti gli amici presero a litigare tra loro. Chi voleva il gas, chi non lo voleva, chi aspettava il petrolio e chi invece aspettava di capire che cosa si sarebbe deciso. Molti anni prima, in un tempo di pace e abbondanza, tutti i paesi amici del Presidente di Oltremare si erano riuniti in una specie di alleanza chiamata Unione, promettendo di aiutarsi e sostenersi a vicenda. La cosa bene o male aveva funzionato per oltre vent’anni, ma poi prima una grande crisi economica, poi un virus dal nome di detersivo e infine la guerra dell’Imperatore avevano iniziato a far scricchiolare questa bella amicizia. L’Imperatore ne approfittò e telefonò uno ad uno a tutti i capi e i re di quei paesi “Si lo so, mi avete chiamato criminale, macellaio, assassino e tante cose brutte, ma ormai la guerra è finita ed è tempo di guardare avanti” – diceva a questo o a quel ministro – “Visto che voi siete senza gas, volete che ve lo chiuda una volta per tutte o preferite che ve lo mandi alla metà del prezzo del Presidente d’Oltremare?

Era una bella domanda. C’era da scegliere tra far contento il Presidente d’Oltremare e morirsi di freddo oppure farlo arrabbiare e accendere forni, termosifoni e fabbriche. Ripresero tutti a litigare anche su quello e alla fine decisero che avrebbero fatto come si faceva una volta: ognuno come gli pare, ma questa è un’altra favola.

L’UNDICESIMA ORA

in questi giorni di guerra ho ritrovato un breve racconto che avevo scritto tempo fa. Parla di come finisce una guerra, o almeno di come è finita quella del 14-18… all’undicesima ora, dell’undicesimo giorno, dell’undicesimo mese.

Verdun -Francia (foto p.Capitini)

Titic-tic…tic…”

Nel vagone di 2a classe ora adibito ad ufficio, due giovani dattilografi attendono come pulcini nel nido che l’ufficiale capoturno – un anziano colonnello di fanteria – depositi loro nel becco le parole del documento. Fuori ha ripreso a piovere; solo la linea degli alberi accenna il confine tra la terra di guerra e il cielo di novembre, grigio come la ghisa.

Foglio 13, paragrafo XXXIV… “La durata dell’armistizio è fissata in 36 giorni con facoltà di essere prolungato…”. L’Ufficiale scandisce ogni sillaba con un accento della Dordogna che si arrampica vittorioso su quel francese burocratico.

Tic- tic- tic…”

Il treno l’aveva voluto il maresciallo Foch, il comandante supremo degli eserciti alleati in Francia. Con quello si spostava avanti e indietro alle spalle di un fronte lungo più di 800 chilometri e comandava. Comandava a milioni di uomini di uscire dalle loro trincee e iniziare a correre fino a quelle tedesche. Poche centinaia di metri, a volte solo decine, poi la mitragliatrice li avrebbe falciati come grano in giugno. La Somme, Verdun, Le Chemin de Dammes, Ypres…erano i nomi di questa immensa mietitura di uomini. Ora il treno è fermo nella foresta di Compiegne, non lontano dalla stazione di Rethondes. Sull’altro binario, a neppure cento metri è fermo un altro treno, quello della delegazione tedesca che dovrà firmare quei fogli che finalmente metteranno fine a quel raccolto.

Arras – Le Gallerie Wellington (foto p.Capitini)

Il treno di Foch, come lo chiamano tutti, si compone di una carrozza ristorante, la n. 2418 D per l’esattezza, una carrozza letti, la n. 1888, e la carrozza salone n. 2443. Ad esse sono stati aggiunti altri due vagoni bagagli per le scorte e materiali vari.

Agli inizi di ottobre del ’18 il ministero della guerra aveva ordinato al Direttore della Compagnia dei Vagoni Letto di allestire ad ufficio una vettura ristorante a due sale: nella sala più grande, quella di 1a classe, avrebbe dovuto lasciare due tavoli da quattro posti e uno più grande tavolo sul quale poter aprire mappe e carte; nella sala più piccola, quella di 2a , avrebbero sistemato due tavoli-scrittoio e qualche sedie; infine nella vecchia cucina i fornelli sarebbero stati sostituiti da tre tavoli per le macchine da scrivere. Era da lì che veniva quel ticchettare che il mondo attende da quasi cinque anni. Per i dattilografi chini sulle loro “Contin de luxe – Paris” quelli sono i fogli più importanti della loro vita. Non ci possono essere errori. Nessuna correzione, nessun graffio di gomma.

foto p.Capitini

Perfetto!” il colonnello dall’isopprimibile accento di Dordogna preme sui fogli i timbri previsti, li registra nel protocollo della posta in uscita e infine li sistema ciascuno in una cartella di cartone rigido color fango. Tre grappette tengono ferme le parole che separano la vita dalla morte. Gettato un ultimo sguardo s’incammina rapido verso la carrozza 2419D. Lo stanno aspettando.

Tieni. Mettili alla firma e facciamola finita”. Dice porgendo le cartelle al giovane tenente della coloniale incaricato di sistemare il tavolo. Avrà si e no vent’anni e non riesce a celare un sorriso. Suo fratello Jaques è ancora in qualche buca fangosa dalle parti di Saint Omer. Spera sia ancora vivo.

Verdun – Francia (foto p.Capitini)

“… Il presente armistizio è stato firmato l’11 novembre 1918 alle ore…”. Il colonnello alza gli occhi verso orologio a muro, è sempre andato avanti di tre minuti, un rapido calcolo e completa a penna “…5 (cinque), ora francese”.

Sul fronte occidentale, nelle trincee, nei ricoveri pieni di pidocchi, nelle postazioni di vedetta riempite di fango il cessate il fuoco entrerà dunque in vigore quel giorno stesso: all’undicesima ora dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese dell’anno.

Fuori fa freddo. E’ l’inizio dell’inverno, il quarto di guerra; 1560 giorni trascorsi da milioni di uomini nell’angoscia di non sapere se quello che hai appena fatto sarà il tuo ultimo respiro.

Sulla foresta di Compiegne, a qualche chilometro dalla stazioncina di Rethondes, i primi raggi di un sole gelido filtrano dai vetri della vettura 2419 D. Alle cinque della mattina dell’11 novembre la delegazione tedesca ha firmato quei fogli. I plenipotenziari tedeschi erano quindi scesi dalla carrozza incamminandos verso il loro treno che li avrebbe riportati…non sapevano neppure loro dove. A Berlino nessuno rispondeva più al telefono. Per quel che ne sapevano, la Germania poteva già non esistere più.

Anche sulle Ardenne fa un gran freddo ma Augustin ride. Ride e vorrebbe saltare, urlare, ballare. Dal comando di battaglione hanno comunicato che la guerra è finita e lui sta correndo in linea per avvertire che alle 11,30 ci sarà minestra calda per tutti. E vino. Vino per tutti. Augustin attraversa le case distrutte di Vrigne sur Meuse, passa la ferrovia che collega Sedan a Charleville o quel che ne resta. Guarda l’orologio, manca meno di mezz’ora alla fine della guerra e ride. Non lo sente neppure arrivare. Un proiettile Spitzer calibro 7.92 lo prende in piena fronte.

Ypres – il museo (foto p.Capitini)

George Lawrence ha 26 anni e non è mai stato in Europa, a dire il vero non è mai stato da nessuna parte oltre i campi di casa sua. Del Belgio conosce solo il canale di fronte a lui e un ponticello semi diroccato. Per lui Mons non è una città, ma solo macerie, terra smossa e odore di morte. Niente a che vedere con l’aria pulita e odorosa di alberi del Canada. Prima di quella pazzia collettiva faceva il contadino in Nuova Scozia e adesso è soldato semplice nel 28° battaglione fanteria canadese, matricola 256295. Non una grande carriera. Quel giorno è un lunedì e a lui è toccato di andare di pattuglia verso il canale, in rue de Mons…hanno detto che la guerra è finita, ma è meglio stare attenti, lì è pieno di crucchi.

Neppure lui sente arrivare il suo proiettile.

Augustin Trébuchon dalla Francia, George Lawrence Price dal Canada; Henry Gunther dagli Stati Uniti: George Edwin Ellison del 5° Royal Irish Lancers e altri 2738 uomini moriranno nell’ultimo giorno di guerra senza vedere l’undicesima ora, dell’undicesimo giorno, dell’undicesimo mese.

Per tutti gli altri la guerra è finita.

…e il conto?

Ma tu stavolta ci vai a votare?”. Già il fatto che una domanda del genere ti venga posta la dice lunga sull’aria che tira in quest’inizio di settembre elettorale.

Andare o non andare a votare, e nel caso per chi?” Ogni volta che l’argomento esce fuori si rianimano Matteotti, i martiri della Resistenza, quelli uccisi dalle Brigate Rosse e tutti gli italiani che negli anni hanno dato la vita perché io potessi liberamente andare a votare. Stanno tutti lì, in bianco e nero, con la faccia incazzata e mi guardano aspettando che dica: “Mi sa che io stavolta non vado!” per farmi sentire come il bimbo che fa piangere la mamma. La mozione degli affetti non dovrebbe essere arma elettorale.

Tentiamo un’altra strada: “Bisogna andare a votare perché se no vincono gli altri”. E chi sarebbero poi gli Altri? Quelli che la pensano diversamente da me? Quelli che rubano? Quelli che non sanno mettere due parole in croce? Oppure quelli che pur sapendolo fare non hanno alcuna idea di cosa dire? Purtroppo il timore di far vincere gli Altri non mi permette per differenza di riconoscere i Miei. Chi sarebbero infatti i miei? Faccio un rapido giro tra visi e panze ma non riconosco nessuno. C’è quello che mi voleva curare con tachipirina&vigile attesa, quello che ha scelto il commissario che s’è inventato le primule e intascato i soldi. C’è pure quello del monopattino inseguito da quella con i banchi a rotelle e poi, quasi nascosto, chi con la bandiera ci si puliva il culo e anche quell’altro che ancora promette un nuovo miracolo italiano. Sarebbe già un miracolo sopravvivere. No, non riconosco nessuno come “i miei“.

Il calcio s’è inventato il prestito con diritto o obbligo di riscatto ma neppure così i nominati in pectore sono miei. Già perché, visto che si fidano così tanto, hanno deciso – tutti, nessuno escluso – che io debba votare solo un simbolo. I nomi, quelli che in teoria dovrebbero rappresentarmi, ce li mettono loro. Che carini! Certo, ad alcuni di quelli non affiderei neppure il sacchetto dell’indifferenziato che qui ritirano il giovedì, ma è solo perché sono malfidato e vecchio. Però a pensarci sono oltre dieci anni che questa legge elettorale, che essi stessi definiscono di merda, è ancora lì. Vigliacco ci fosse stato uno che c’avesse mai messo mano. Forse perchè, essendo di merda, fa un po’ schifo a tutti.

Come una zanzara di notte mi ronza fastidioso il consiglio: “Vota il meno peggio” oppure “Vota turandoti il naso”. Sul valore del voto in apnea discuterò un’altra volta, ma ora mi chiedo perché dovrei per forza scegliere tra due mali; uno supposto minore dell’altro, ma pur sempre un male. Ogni tanto, giusto per provare, non si potrebbe scegliere tra il Bene e il Male? Tra i Ladri e gli Onesti? Tra il Giusto e l’Ingiusto? No, eh… “.

A questo punto al bar della piazza dove fanno un grandioso gelato alle creme trovo quasi sempre Catone il Censore che mi intima: ”…se non voti non hai diritto poi di parlare e neppure di lamentarti!”. “Quindi – penso – chi non vota perché ammalato, perché minorenne, perché all’estero per lavoro, perché è in viaggio proprio quel giorno, per i prossimi cinque anni è condannato al silenzio? Al trappismo politico? Una interpretazione un po’ bislacca della cittadinanza, n’est pas?!

Quello che vota il parlamento diventa legge per tutti, non solo per chi ha votato e tutti hanno diritto di critica e di parola visto che la legge bussa ad ogni casa e, come recita l’adagio, “non ammette ignoranza”, significando forse che andrebbe trattata con più gentilezza. Anzi, adesso che ci penso, si possono anche raccogliere firme per cancellarla, una legge, e lo possono fare tutti, mica solo quelli che hanno votato. Argomentazione scarsa dunque.

Proviamo allora con “Non guardare ai politici, ma guarda al programma”. Una volta chiesero a Gandhi cosa ne pensasse della civiltà occidentale. “Sarebbe un’ottima idea” aveva risposto il Mahatma e anche per i programmi elettorali si potrebbe dire lo stesso.

Buona idea se ne avessero uno, anche di seconda mano, anche stortignaccolo, ma niente. Non c’è uno straccio di documento che riporti una mezza idea di come arrivare vivi al 2027. Niente. Certo, le letterine a Babbo Natale abbondano. C’è chi vuole affondare i migranti, chi regalare stipendi a fine anno, chi l’ecologia, chi il nucleare e anche chi vuole il parmigiano sugli spaghetti alle vongole. Io, ad esempio, vorrei perdere cinque chili entro cinque mesi, ma non penso che sia materia per un’elezione. Siamo quindi giunti al momento in cui ti dicono: “ma se non voti poi arrivano…” elenco nell’ordine: i comunisti, i fascisti, i democristiani, i pro-vax; i no-vax, i boh-vax, Putin con tutti i Russi, Biden con tutti gli Americani, i Tedeschi perché già sanno la strada; i Francesi che si comprano tutto, i Polacchi che ci portano un altro Papa dei loro e così via. L’avesse mai predetto Mosé al Faraone, questi avrebbe preferito di certo le classiche piaghe. Rane comprese. Malgrado le previsioni da menagramo non immagino che il non andare a votare potrebbe determinare il crollo della civiltà occidentale (a dispetto di Gandhi, ne abbiamo una), la fine del cristianesimo, l’arrivo dell’anti-Cristo e la ripresa della deriva dei continenti. E visto che in fondo un minimo di ottimismo m’è rimasto potrei anche correre il rischio di non votare e vedere se davvero un meteorite mi prende in piena fronte.

Resta infine l’ecumenico “Vai a votare anche se, voti o non voti, non cambia niente”. Vero. E proprio perché il mio singolo voto non cambierà mai una cippa di niente almeno lasciatemi assegnare al gesto un minimo valore morale e ideale; foss’altro solo per me. Guardo di nuovo verso i visi e le panze di anzi citate e di morale e ideale non scorgo alcunché.

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Il 25 settembre comunque si avvicina e sempre più distinta si va formando in me un’immagine, quella di un grande ristorante, di quelli a tre stelle Michelin, dove un uovo al tegamino costa come un metro quadro in piazza di Spagna. Seduti ai tavoli con doppia tovaglia di Fiandra vedo tutti i politici che in questi anni mai si sono alzati da lì, neppure per andare al bagno. Stanno seduti e parlano, parlano. Ogni tanto ordinano altro champagne e due spaghetti alla magnòsa, tanto per gradire.

Poi in sala ci sono i camerieri. Hanno tutti la mia faccia e corrono, corrono portando questo e quello. Alla fine, dopo il caffè e la grappa, i visi e le panze si girano tutti verso di me e mi consegnano il conto. Solo contanti, no bancomat!

Se andrò a votare? Vorrei tanto fumarmi una sigaretta seduto fuori dal ristorante, anzi lontano; lontanissimo. Vedremo.

Buona cena a tutti.

P.S. Se comunque la gente si chiede se andare a votare o no vuol dire che una bella figura in questi anni non l’avete fatta.