Rue de Delmas è un stradone lungo e sudicio che dal porto sale su, fino alle colline degli uomini, dove esistono case e gente normale; prima, a destra e sinistra, trovi solo disperati.
“Comment était le tremblement de terre ? Dites-le-moi” avevo chiesto a un vecchio fuori da un mercato. Guardava il mare e fumava seduto su una cassa vuota di “prestige”, la birra di Haiti.

“Oh, paron” – mi aveva risposto sorpreso che qualcuno, un bianco, glielo chiedesse – “un énorme serpent qui est sorti de la mer et montait le long de la rue”. Il serpente uscito dal mare era strisciato sotto la Delmas e aveva distrutto tutto. Due cose non aveva toccato: la speranza nel futuro e la fede in Dio Padre Onnipotente. La prima se ne era andata da tempo, forse di là dal mare, a Santo Domingo o in Florida. Circa la fede chi altro potevano pregare se non quel dio che ogni anno li uccideva a centinaia.

Doveva essere di certo un dio bianco quello del colera, degli uragani, dei terremoti e della fame; ecco perché se ne erano inventati uno negro. Un Dio Negro che aveva creato un Gesù Negro, figlio di una Madonna Negra. Ad Haiti non ci sono i Neri, quelli dei diritti civili e del politically correct; quelli che come Martin Luther King avevano un sogno. Sono rimasti i Negri, povera gente senza sogni strappata dall’Africa, piegata dalla frusta e infine abbandonata su un’isola dall’altra parte dell’Atlantico.

Ero capitato ad Haiti Port-au-Prince poche ore dopo il passaggio del serpente. Sotto le macerie si diceva ci fossero 230.000 morti. Alcuni, i più fortunati, erano entrati subito in quel numero; altri – molti, molti altri – c’avrebbero messo giorni a morire, imprigionati tra le macerie di una città polverizzata.
Nessuno scavava. Chi era vivo sopravviveva rovistando tra le macerie in cerca di qualcosa di utile: una lamiera; un catino di plastica; qualche mattone di cemento. I morti ormai avevano raggiunto Papa Ghede, lo spirito che governa l’oltretomba. Su tutta la città ristagnava un borotalco di polvere bianca che tratteneva l’odore dei cadaveri e della immondizia in decomposizione. Anche a dicembre il sole dei Caraibi sa essere crudele. Negli spiazzi tendopoli cenciose tirate su con sacchi di plastica blu e qualche pezzo di lamiera. Ovunque cartelli mal scritti: “AIDEZ-NOUS”.

Suor Luisa era una di quelle che aveva deciso di aiutarli molto prima che il terremoto ricordasse al mondo l’esistenza di questo pezzo di disperazione. Era una religiosa, magra come un chiodo, con due gambette fine, fine che terminavano in due piedi infilati in ciabatte da un dollaro. Vestiva sempre di un blu carta-zucchero e non portava il velo. Solo la Croce.

L’avevo conosciuta perché qualcuno, forse all’ufficio dell’ONU, forse all’arcivescovato ci aveva avvertiti che la scuola che gestiva era stata spianata. A quel tempo l’Italia aveva mandato una portaerei e un battaglione del genio per dare una mano. La portaerei serviva a pochino, ma il battaglione del genio era come la manna dal cielo. Naturalmente il solerte stato maggiore aveva spedito in quella missione un battaglione del genio alpino dotato di ruspe gommate. Alpini su ruote ai caraibi in un posto ingombro di macerie. Geniale. Tuttavia l’animo del soldato italiano è più intelligente e pratico di qualsiasi generale romano e questi ragazzoni meridionali, spediti in Friuli, si spaccavano la schiena per tutto il giorno, pronti a ricominciare il giorno dopo. Dopo un po’ la polvere copriva le divise e non riconoscevi più i genieri dai vigili del fuoco, altra nobile razza di italiani. A guardarli mi sentivo a disagio a non avere anche io un piccone in mano.

Non so chi aveva scoperto la strada fino alla scuola di Suon Luisa, una traversa di una traversa, di un vicolo che tagliava un fosso tra rue Delmas e Cité Okay. L’edificio era collassato per metà e nell’altra metà una torma di bambini dai 5 agli 8 anni continuava a fare lezione. Le bambine avevano treccine e fiocchi in testa, i bimbi una camicina pulita. C’era ordine e speranza tra quelle mura.
Ricordo che m’ero messo a sedere per terra e dopo pochi secondi, preceduti dalle risatine di coraggio dei bambini, m’ero ritrovato addosso decine di manine nere. Toccavano i capelli e ridevano. Toccavano, scappavano poi toccavano ancora e ridevano. “Touche ! On dirait le poil d’un chat” Doveva sembrare davvero buffo un uomo dai capelli bianchi e lisci come il pelo di un gatto in un mondo di teste nere e ricce.

Lavorammo per qualche giorno a sgomberare la scuola di suor Luisa, l’aveva chiamata “Kay Chal” ma tutti la conoscevano come “Maison Charles”. Questa donna bergamasca, cocciuta come la sua gente, aveva deciso di contendere la vita di quei bambini alla miseria e alla violenza. Non sempre vinceva, ma guardando quegli occhi vispi si capiva che a lei interessava non la vittoria ma la lotta. Si deve essere dei pazzi visionari per guardare quell’angolo del mondo e pensare di poter fare qualcosa. Suor Luisa, suor Anna come anche Fiammetta e molti altri avevano trovato il modo di non scoraggiarsi: guardavano agli occhi e al cuore della gente. Gli stessi cuori e gli stessi occhi guardavano loro e insieme si dicevano “siamo noi, siamo l’umanità”. Un’umanità senza aggettivi, né bella, né brutta, né ricca, né povera. Solo umana.
A me che venivo da Roma via XX settembre non riusciva subito questa magia di vita. Non mi riusciva neppure di raccontarla e invidiavo tanto giornalisti come Barbara, Lucia, Antonella e Domizia che trovavano le parole o gli scatti e i volontari come Rosa e Annalisa e la dottoressa Monica che sapevano dove mettere le mani. La sera quando rientravamo al campo mi sentivo di non aver fatto niente.

L’altro giorno accendo la TV e mi dicono che suor Luisa è stata uccisa. L’hanno ammazzata non lontano da rue de Delmas e dalla sua scuola, forse per soldi, forse per fame, forse perché ad Haiti si muore e basta. Io quella donna l’ho conosciuta e ho visto cosa è riuscita a fare. Sono loro le persone che ti rimangono dentro e che quando le ricordi ti chiedono: “e tu cosa fai?”
Io adesso ho trovato le parole per ricordarla. Non credo basterà.