In ricordo di suor Luisa Dell’Orto.

Rue de Delmas è un stradone lungo e sudicio che dal porto sale su, fino alle colline degli uomini, dove esistono case e gente normale; prima, a destra e sinistra, trovi solo disperati.

Comment était le tremblement de terre ? Dites-le-moi” avevo chiesto a un vecchio fuori da un mercato. Guardava il mare e fumava seduto su una cassa vuota di “prestige”, la birra di Haiti.

Port-au-Prince – Haiti – il porto (foto p.Capitini)

Oh, paron” – mi aveva risposto sorpreso che qualcuno, un bianco, glielo chiedesse – “un énorme serpent qui est sorti de la mer et montait le long de la rue”. Il serpente uscito dal mare era strisciato sotto la Delmas e aveva distrutto tutto. Due cose non aveva toccato: la speranza nel futuro e la fede in Dio Padre Onnipotente. La prima se ne era andata da tempo, forse di là dal mare, a Santo Domingo o in Florida. Circa la fede chi altro potevano pregare se non quel dio che ogni anno li uccideva a centinaia.

Port-Au-Prince, Haiti (foto p.Capitini)

Doveva essere di certo un dio bianco quello del colera, degli uragani, dei terremoti e della fame; ecco perché se ne erano inventati uno negro. Un Dio Negro che aveva creato un Gesù Negro, figlio di una Madonna Negra. Ad Haiti non ci sono i Neri, quelli dei diritti civili e del politically correct; quelli che come Martin Luther King avevano un sogno. Sono rimasti i Negri, povera gente senza sogni strappata dall’Africa, piegata dalla frusta e infine abbandonata su un’isola dall’altra parte dell’Atlantico.

Haiti, Port-au-Prince – il mercato della frutta (foto p.Capitini)

Ero capitato ad Haiti Port-au-Prince poche ore dopo il passaggio del serpente. Sotto le macerie si diceva ci fossero 230.000 morti. Alcuni, i più fortunati, erano entrati subito in quel numero; altri – molti, molti altri – c’avrebbero messo giorni a morire, imprigionati tra le macerie di una città polverizzata.

Nessuno scavava. Chi era vivo sopravviveva rovistando tra le macerie in cerca di qualcosa di utile: una lamiera; un catino di plastica; qualche mattone di cemento. I morti ormai avevano raggiunto Papa Ghede, lo spirito che governa l’oltretomba. Su tutta la città ristagnava un borotalco di polvere bianca che tratteneva l’odore dei cadaveri e della immondizia in decomposizione. Anche a dicembre il sole dei Caraibi sa essere crudele. Negli spiazzi tendopoli cenciose tirate su con sacchi di plastica blu e qualche pezzo di lamiera. Ovunque cartelli mal scritti: “AIDEZ-NOUS”.

Haiti- Port au Prince (foto p.Capitini)

Suor Luisa era una di quelle che aveva deciso di aiutarli molto prima che il terremoto ricordasse al mondo l’esistenza di questo pezzo di disperazione. Era una religiosa, magra come un chiodo, con due gambette fine, fine che terminavano in due piedi infilati in ciabatte da un dollaro. Vestiva sempre di un blu carta-zucchero e non portava il velo. Solo la Croce.

Haiti – Port-au-Prince – Suor Luisa Dell’Orto (foto p.Capitini)

L’avevo conosciuta perché qualcuno, forse all’ufficio dell’ONU, forse all’arcivescovato ci aveva avvertiti che la scuola che gestiva era stata spianata. A quel tempo l’Italia aveva mandato una portaerei e un battaglione del genio per dare una mano. La portaerei serviva a pochino, ma il battaglione del genio era come la manna dal cielo. Naturalmente il solerte stato maggiore aveva spedito in quella missione un battaglione del genio alpino dotato di ruspe gommate. Alpini su ruote ai caraibi in un posto ingombro di macerie. Geniale. Tuttavia l’animo del soldato italiano è più intelligente e pratico di qualsiasi generale romano e questi ragazzoni meridionali, spediti in Friuli, si spaccavano la schiena per tutto il giorno, pronti a ricominciare il giorno dopo. Dopo un po’ la polvere copriva le divise e non riconoscevi più i genieri dai vigili del fuoco, altra nobile razza di italiani. A guardarli mi sentivo a disagio a non avere anche io un piccone in mano.

Haiti – port au Prince – scuola dei Salesiani – Vigile del Fuoco (foto p.Capitini)

Non so chi aveva scoperto la strada fino alla scuola di Suon Luisa, una traversa di una traversa, di un vicolo che tagliava un fosso tra rue Delmas e Cité Okay. L’edificio era collassato per metà e nell’altra metà una torma di bambini dai 5 agli 8 anni continuava a fare lezione. Le bambine avevano treccine e fiocchi in testa, i bimbi una camicina pulita. C’era ordine e speranza tra quelle mura.

Ricordo che m’ero messo a sedere per terra e dopo pochi secondi, preceduti dalle risatine di coraggio dei bambini, m’ero ritrovato addosso decine di manine nere. Toccavano i capelli e ridevano. Toccavano, scappavano poi toccavano ancora e ridevano. “Touche ! On dirait le poil d’un chat” Doveva sembrare davvero buffo un uomo dai capelli bianchi e lisci come il pelo di un gatto in un mondo di teste nere e ricce.

Port – au- Prince -HAITI (foto p.Capitini)

Lavorammo per qualche giorno a sgomberare la scuola di suor Luisa, l’aveva chiamata “Kay Chal” ma tutti la conoscevano come “Maison Charles”. Questa donna bergamasca, cocciuta come la sua gente, aveva deciso di contendere la vita di quei bambini alla miseria e alla violenza. Non sempre vinceva, ma guardando quegli occhi vispi si capiva che a lei interessava non la vittoria ma la lotta. Si deve essere dei pazzi visionari per guardare quell’angolo del mondo e pensare di poter fare qualcosa. Suor Luisa, suor Anna come anche Fiammetta e molti altri avevano trovato il modo di non scoraggiarsi: guardavano agli occhi e al cuore della gente. Gli stessi cuori e gli stessi occhi guardavano loro e insieme si dicevano “siamo noi, siamo l’umanità”. Un’umanità senza aggettivi, né bella, né brutta, né ricca, né povera. Solo umana.

A me che venivo da Roma via XX settembre non riusciva subito questa magia di vita. Non mi riusciva neppure di raccontarla e invidiavo tanto giornalisti come Barbara, Lucia, Antonella e Domizia che trovavano le parole o gli scatti e i volontari come Rosa e Annalisa e la dottoressa Monica che sapevano dove mettere le mani. La sera quando rientravamo al campo mi sentivo di non aver fatto niente.

foto p.Capitini

L’altro giorno accendo la TV e mi dicono che suor Luisa è stata uccisa. L’hanno ammazzata non lontano da rue de Delmas e dalla sua scuola, forse per soldi, forse per fame, forse perché ad Haiti si muore e basta. Io quella donna l’ho conosciuta e ho visto cosa è riuscita a fare. Sono loro le persone che ti rimangono dentro e che quando le ricordi ti chiedono: “e tu cosa fai?

Io adesso ho trovato le parole per ricordarla. Non credo basterà.

“Scusi, quel posto è libero?” – l’alta umanità prima dell’alta velocità.

Roma – Stazione Termini (foto p.Capitini)

Scusate, è libero quello?” Se ti andava bene un cenno del capo sarebbe bastato altrimenti un’occhiata da pittbull ti avrebbe convinto a proseguire lungo il corridoio. Si avanzava a stento, tra gli strapuntini occupati, zigzagando tra valige color tabacco e il bel ragazzo che come fosse oppio aspirava un’MS, fissando la ragazza appollaiata sullo strapuntino lì accanto. Non si era accorto che le sue dita di bimba seguivano “la cultura come prassi” di Baumann” così come un ebreo sfiora il rotolo della Torah, segno che non c’era alcuna speranza di attaccare bottone.

Sulla linea adriatica, la Lecce – Bologna – Milano, era fondamentale scegliere lo scompartimento giusto. Quei treni trasportavano l’Italia del miracolo economico e dello sradicamento; gli studenti di Bologna che lanciavano molotov ai poliziotti ma avevano in valigia il sugo al basilico preparato da mamma; i militari in “licenza breve” con biglietto a tariffa 5, gli scout che cantavano “grazie signore grazie“, suore imbalsamate, emigranti, medici, preti e carabinieri in uniforme… insomma ci trovavi tutta l’Italia e anche l’Italia si ritrovava sui consunti sedili in vellutino verde.

Reparto scout Falconara 2 … (foto… non lo so).

Durante la ricerca del posto perfetto si incontravano figure immutabili come le carte dei tarocchi. Ad esempio “la vecchia ”. Aveva un’età indefinita, una collana di perle e un cammeo sul bavero sinistro, esibito come fosse il distintivo del Partito delle Persone Dabbene. “La Vecchia” sedeva sempre vicino al finestrino, profumava di colonia Atkinsons e occupava il sedile al suo fianco con “Gioia”, “Gente”, “Oggi” e “Grand Hotel” perché ci teneva ad apparire informata. Andava sempre a trovare una figlia sposata a Modena e ti avrebbe parlato del marito morto da poco e della suocera “… per carità, tanto brava ma…” Via! Da evitare come la peste

Si viaggiava sempre per un motivo serio sull’Adriatica. Ai perditempo e ai turisti avevano invece riservato la tirrenica. Vuoi mettere infatti Napoli, Salerno e Roma con Pescara, Ancona e Bologna? E poi l’adriatica portava a Milano Centrale e lassù, come fosse l’ultimo sportello di un armadio, si andava solo per lavorare.

foto p.Capitini

Lo scompartimento successivo lo trovavi chiuso. le tendine marroni ben serrate. A quel punto era meglio ricordarsi che il treno nasceva a Lecce e quello era l’inequivocabile segnale di divieto d’accesso. Spalancare la porta scorrevole avrebbe infatti significato essere investiti da un fetore di piedi, calzini, fumo e sudore con cui avresti poi dovuto convivere per il resto del viaggio. Ti va di rischiare? Solo il controllore osava aprire quella specie di ovile.

Si scorreva ancora fino al prossimo scompartimento dove forse qualcuno guardando prima la tua valigia da esule politico e poi il viso supplice avrebbe forse detto “Io scendo a Pesaro”. Accanto a lui nell’ordine si contavano: mamma non due bimbi, signore con libro ed occhiali; militare; bella ragazza 1 e bella ragazza 2. Valeva la pena aspettare fino a Pesaro e farsi il resto del viaggio in loro compagnia. Era ovvio però che Bella Ragazza 1 e Bella Ragazza 2 sarebbero scese a Bologna e a te sarebbe toccato il resto del viaggio fino a Milan con mamma, signore occhialuto e altre due carte estratte dal mazzo, compresa, forse, la suora e il ciccione.

Perché tutta l’umanità meno gradevole se ne andava a Milano? Che posto terribile doveva essere visto che dopo si e no un anno ti faceva dimenticare il tuo accento e iniziavi a parlare con una e tanto aperta da suonare uno squillo di tromba. Milano, che come cantava Lucio Dalla … faceva una domanda in tedesco e rispondeva in siciliano.

Io a Milano non c’ero mai stato ma a Bologna si. Per noi marchigiani d’Adriatico Bologna era la città; un po’ nord e un po’ casa. Noi che fino all’estate prima giocavamo a pallone sulla spiaggia, abbronzati e panati di sale e sabbia, una volta a Bologna ci scoprivamo cittadini, qualcuno addirittura leggeva Marx, altri Pavese. Qualcun altro scopriva i collettivi e l’Autonomia” e magari si trovava in mano una P38 e qualcuno che gli indicava contro chi usarla. L’unico cordone che teneva legati a casa e alla spiaggia studenti, terroristi, ragazze già donne e ottimisti pronti alla fuga era la ferrovia Adriatica.

Stazione di Falconara Marittima (AN) – particolare (foto p.Capitini)

Falconara Stazione di Falconara. Treno espresso da Lecce per Bologna delle 17,31 è in arrivo al binario 3. Viaggia con 117 minuti di ritardo. Ferma a Senigallia, Fano, Pesaro, Rimini, Forlì Imola e Bologna”. Mi sono sempre chiesto perché le Ferrovie dello Stato – quelle che esistevano prima di Trenitalia – si ostinassero ad annunciare ritardi che avrebbero avuto bisogno di un pallottoliere per essere decifrati. E che cazzo! Quante ore sono 117 minuti? E che ti costava tanto dire che ha due ore di ritardo?

Decriptato il messaggio qualcuno sul binario tre bestemmiava sottovoce, qualcun altro si girava e chiedeva “Che ha detto?” e poi c’era sempre quello che con granitica sicurezza se ne usciva con “Tranquilli, tanto dopo Senigallia recupera!”. Perchè? Per quale arcano sortilegio dopo Senigallia avrebbe recuperato non si è mai saputo.

Ho sempre amato i treni anzi potrei dire che li ho sempre ammirati. A quel tempo uno degli sport preferiti dei papà era “vieni che ti porto a vedere i treni” e quando ne passava qualcuno fischiando ci dicevano “saluta il treno con la manina”. Da allora il treno è rimasto per me un totem assoluto . Anche perché, cosa volete, agli occhi di un bambino il treno sembrava un mostro inspiegabile, dotato di vita propria. Si muoveva, rumoreggiava, strideva e fischiava senza che nessuno gli imponesse una qualsivoglia volontà. In realtà c’era stato detto che la dentro, da qualche parte, c’era il macchinista, l’unico essere umano che il treno rispettasse davvero.

Macchinisti (foto p.Capitini)

Il macchinista viveva nel treno e non aveva paura di niente. Solo una cosa lo terrorizzava : che qualcuno finisse sotto il treno. Che si fosse buttato o si fosse trattato di un incidente poco importava. Il macchinista a quel punto sarebbe impazzito, poi l’avrebbero arrestato e infine l’avrebbero lasciato per tutta la vita nelle stazioni piccole a spostare vagoni con le locomotive piccole e gialle che non facevano paura a nessuno e che non andavano da nessuna parte. Almeno così dicevano mamma, papà e Pietro Germi. Sarà per questo che in stazione osservavo con sospetto i macchinisti in manovra; per me palesemente tutti assassini impazziti.

Io però uno dei domatori di treni l’avevo conosciuto davvero. Era il signor Esposito, vicino di casa e macchinista. Anche lui, come mio padre poliziotto, lavorava di notte per cui il silenzio e il rispetto del sonno di entrambi era da considerare sacro. Almeno lo era per me e per Sauro, il mio amico del cuore il cui papà faceva la guardia notturna in bicicletta. Altra persona da non svegliare. Adesso che ci penso tra Via Piave, via Solferino e via Ciro Menotti dormivano tutti. Anche il padre di Max che era finanziere e quello di Orlandini pure lui poliziotto. Comunque con i treni questo c’entra poco e noi continuavamo a giocare a pallone per strada tirando pallonate contro i portoni.

foto p.Capitini

C’entrano invece gli orecchioni che m’avevano preso non so se a sei o sette anni. Non posso essere preciso né sull’età né sulla malattia, ma a quell’età l’orologio e il calendario contano davvero poco. Ricordo comunque che stavo male. Non era ancora il tempo odierno delle corse in ospedale o del pediatra. Stavi male? Allora te ne stavi a letto, ti beccavi il brodino di pollo e il pane con il prosciutto fatto a dadini piccoli e prima o poi ti sarebbe passato. Ancora oggi se mi sento un po’ di febbre sono convinto che un etto di prosciutto farà meglio della tachipirina e della vigile attesa.

Per farmi uscire dallo stato di malato dolorante alla mamma venne in mente di dirmi che il signor Esposito aveva promesso che se avessi smesso di lamentarmi mi avrebbe portato a Perugia con il treno. Sulla locomotiva. Quella vera. Elon mask non era ancora neppure nella mente di dio e con lui i viaggi spaziali per cui l’idea di un viaggio in locomotiva era il massimo dell’avventura possibile. Solo l’aereo l’avrebbe potuta battere ma si sa che con l’aereo si andava solo in America e io in America non conoscevo nessuno. La locomotiva mi guarì di colpo e il signor Esposito mantenne la parola. Alla stazione di Falconara Marittima. Binario 1, l’accelerato per …segue lista di tutti i paesini più minuti da lì a Foligno, arrivò frenando con uno stridio nervoso e paralizzante. Corsi verso la locomotiva che indifferente mi parava il culo fisandomi con quei due faretti bianchi piccoli piccoli. Era una fantastica E 636. Marrone, piena di bulloni e quadrata come una scatola di scarpe. La porta si aprì e il signor Esposito in tutta la sua onnipotenza mi fece salire.

Falconara M.ma – la linea adriatica (foto p.Capitini)

Credo di aver iniziato a fischiare a Villanova e smesso ad Albacina, ma non sono proprio sicuro. Ho anche toccato una leva color ottone che faceva andare più forte il treno. Ero Dio, ma si può essere Dio una volta sola. Non mi ammalai più, il signor Esposito continuò a fare il macchinista e a dormire di giorno e io non guidai mai più un treno. Fui declassato a semplice passeggero, anche se essere un passeggero tra gli anni ’70 e i 90 non era una faccenda per tutti. Poteva essere considerato quasi un mestiere, con i suoi trucchi e le sue astuzie che andavano sviluppati con il tempo e decine di viaggi di pratica.

Innanzi tutto il vagone, ce n’erano di tanti tipi e se ti capitava quello sfigato erano davvero dolori ma almeno tutti i treni avevano gli scompartimenti, niente a che vedere con quell’ibrido tra il pullmann della ACOTRAL e un aereo che sono oggi “Italo” e “Freccia Rossa” Lo scompartimento era una sorta di salotto di casa, isolato, e animato da un microcosmo di umanità variamente assortita che ad ogni fermata si offriva ai nuovi passeggeri secondo un galateo consolidato.

Finché durò devo dire che prendere il treno mi piaceva, poi, come in una cansone di Branduardi, venne il trolley che cancellò la valigia pesante e nessuna signora larga di fianchi e dalle enormi tette avrebbe più avuto bisogno di un “giovinotto” che le desse una mano a issarla sul portabagagli. Dopo il trolley venne l’aria condizionata che cancellò i finestrini aperti e le tendine svolazzanti color di nicotina e anche l’avviso “Do not lean out from the window” perse ogni importanza. Quindi venne lo smarthphone che cancellò la parola e lo “…scusi l’ha letto? Dispiace se do un’occhiata?” che ti permetteva di spaziare tra il Corriere della Sera, la Gazzetta dello Sport e l’Unità. A ben pensarci anche l’Unità è scomparsa. Venne infine il divieto di fumo prima negli scompartimenti, poi nei corridoi, infine anche nel passaggio tra le carrozze e davanti ai bagni. Conosco solo un posto dove ancora è possibile avvistare ansiosi tabagisti impenitenti con venature d’isteria. E’ la stazione di Firenze Santa Maria Novella.

(foto p.Capitini)

Là il treno per Bologna e Milano deve cambiare il verso della motrice e quindi si hanno quei dieci minuti per fumarsi di tutto. E’là che ho compreso che la democrazia e la solidarietà umana hanno ancora una speranza. E’ là, sul binario sudicio della stazione dove direttori di banca chiedono una sigaretta a disoccupati cenciosi, donne in pelliccia si chinano su accendini Bic stretti da mani da manovale che ben più volentieri avrebbero stretto le loro chiappe. Tra i sanculotti della ribellione contro la dittatura salutista passano sguardi d’intesa e di gratitudine che neppure gli affiliati alla “Giovine Italia” si permisero mai.

Su questo rimasuglio di umanità solidale si è infine abbattuta la IQOS, la solitaria sigaretta elettronica sexy come una bambola di gomma.

E’ così che l’alta velocità pian piano ha cancellato l’alta umanità, quella che per innamorarsi aveva bisogno del pudore di uno scompartimento.

I GATTI NON SE NE SONO MAI ANDATI – racconto breve di una deviazione in Appennino

(foto p.Capitini)

Prima dei tunnel e dei viadotti e prima del “traffico intenso tra Roncobilaccio e Barberino del Mugello” l’Appennino non si attraversava; lo si saliva.

Con fatica, nella stagione giusta e per un motivo importante si salivano i suoi sentieri e quando si da lassù si scendeva si era grati per avercela fatta.

Al tempo degli uomini, quello che precedette l’attuale tempo degli individui, le scarpe e gli zoccoli ben conoscevano gli stradoni partoriti dalle mura delle facili città di pianura. Sapevano dei fontanili e di dove iniziavano le mulattiere; quali passi erano aperti e quali la neve aveva già chiuso.

Tra le montagne, dove la luce fugge veloce, il cammino sarebbe durato fino a che la coperta d’ombra non avesse avvolto il sentiero. Poi si sarebbero accesi i fuochi e disposte le guardie. Per le carrozze ci sarebbe stata una locanda, una minestra e una stalla di pietra per riparare le bestie.

(foto p.Capitini)

Sulle quelle cime scure di roccia e prati, una goccia di pioggia e le lacrime sciolte del ghiaccio di primavera ancora oggi scelgono il proprio mare, scivolando sull’erba gialla resuscitata dalla neve, rimbalzando prima sull’arenaria dei prati alti e poi sui sassi bianchi e rotondi del Panaro oppure del Reno.

Se le gocce si sceglievano un mare e i piedi erano obbligati al sentiero allora, nel mio viaggio verso casa, avrei potuto uscire dal ragionevole obbligo dell’autostrada e tentare anche io di scegliere il mio.

Provare a trovare una pista per salire e un’altra per discendere. Piste tutte sconosciute, strade di un viaggio vero, quello dove ricordo e memoria non t’aiutano e la sorpresa ti siede a fianco, muta.

(foto p.Capitini)

C’è vento. Forte, freddo e profumato di erba.

Sopra di me il cielo continua a sfogliare un infinito campionario di nuvole, indeciso se annegarmi o regalarmi un po’ di sole. La strada è lucida di pioggia e di foglie. Un raggio di sole inaspettato fa brillare per un tempo di sorpresa minuscoli paesini conficcati sui fianchi della montagna o incagliati giù, all’ansa del torrente.

Sono stati affidati a una Madonna o a un Santo nella certezza che almeno loro li avrebbero protetti dalla montagna e dalle notti fredde di lupi.

(foto p.Capitini)

Sono stati pochi gli uomini che nel tempo hanno chiamato questi luoghi “casa“. I più sono passati in fretta nel fondovalle, seguendo i fiumi e risalendo i passi, diretti a Roma o alla grande pianura che si apre ancora oltre la linea delle cascate. In pochi si sono fermati, ma quei pochi l’hanno fatto per secoli, posseduti da una tenacia avara, figlia della fatica e dalla miseria.

Nei paesi affidati alle Madonne, avevano resistito a principi e vescovi, sopravvivendo a invasori sconosciuti, a guerre di cui non sapevano nulla e a carestie di cui invece sapevano tutto; aggrappati a quei monti gonfi come la pasta del pane.

(foto p.Capitini)

Poi l’Italia, un paese che in molti non avevano mai conosciuto, s’era scoperta ricca e moderna. Al di là delle nebbie il fondovalle a tutti sembrò ancora più ricco. E li inghiottì.

Erano scesi dai loro paesini affidati alla Madonna, migrando verso officine, ascensori e notti piene di neon e asfalto; notti senza più lupi e bufere. Notti senza più silenzio e rosicchiare di tarli.

Da boscaioli, carbonai, pastori, falegnami e fabbri, l’acqua calda e un water smaltato bianco li trasformò in operai. Il partito diede loro anche un’altra fede, battezzandoli classa operaia. Fu allora, sul finire degli anni ’50 che le Madonne, offese, si ritirarono nei loro paesi a custodire usci sempre chiusi.

Negli anni ’70 i figli dei boscaioli divenuti operai e quindi classe operaia furono mandati in buon ordine alle università dove si diventava “dottore“, titolo che li avrebbe per sempre salvati da un possibile ritorno tra quei monti ormai all’orizzonte. I loro padri, vent’anni prima s’erano accontentati di vedere il mare.

(foto p.Capitini)

Oggi, che la classe operaia è morta e che i “dottori” non risalgono i monti ma fuggono all’estero guido piano per strade dimenticate. Ripasso per quei luoghi e il monte restituisce le loro storie scritte sulla pietra, con un inchiostro di fede e paura. Mostro gentile l’Appennino e le sue Madonne che custodiscono con cura i ricordi di quella gente. Chissà, un giorno smetteranno di fare tunnel e viadotti e gli uomini ritorneranno. I lupi sono già tornati.

Credo che i gatti non se ne siano mai andati.