Tarquinia – le saline.

Il mare non ha cicatrici; ti accoglie sempre nuovo come il giorno della creazione.

Non si scorge il solco della prua di Ulisse né la scia di Colombo e le galee turche sono memoria in vecchi quadri di terraferma, il mare dimentica tutto perché vive di un eterno, mutevole presente. Forse è per questo che, guardandolo, ci sentiamo al sicuro in terra.

Tarquilia (VT) le saline (foto p.Capitini)

La terra è infatti lo spazio della memoria e del progetto. Ricorda così tanto del passato e promette un futuro così tanto vicino da comprime il presente nel tempo di un respiro. Oggi sono arrivato qui percorrendo il solco di una strada di povere. il mare è oltre le saline e oltre la spiaggia. Laggiù è l’eterno presente di un blu Tirreno inconfondibile, Quà la vecchia colonia penale di Tarquinia da anni abbandonata e per questo ancor più testimone.

Tarquinia – le Saline (foto p.Capitini)

Qui, tra strade logiche e assolate, oltre le siepi di oleandro, tutto è passato e sarà forse un futuro. Pedalo lentamente. Attorno il caldo profumato e umido dell’estate. Case è padiglioni dalle finestre vuote mantengono sui muri le scritte ordinate dell’Autorità che proprio laggiù, in un lembo di Maremma profumata aveva esiliato vite disordinate, comandate a cavar sale.

Tarquinia – Le Saline – interno di un padiglione carcerario (foto p.Capitini)

Pedalo lento, immaginando che l’erba e i muri scrostati mi parlino oggi delle vite di ieri. In fondo c’è la speranza che domani altre mura e altra erba parleranno delle nostre vite e della mia che oggi pedalo qui su una bicicletta dalla catena lenta che scatta a ritmo.

Tendo l’orecchio ma le voci dei bimbi sotto il grande pino, sudati a far la conta cento estati fa, non arrivano più e dalle finestre aperte che oggi dondolano allo scirocco non si scorgono i seni delle donne né si ascolta il chiacchiericcio delle vecchie o il bestemmiare degli uomini.

(foto p. Capitini)

E’ bello in questo pomeriggio di inizio estate trovarsi per caso in un luogo così. Le voci e gli odori delle vite che l’abitarono le avrà portate via il vento. E il vento, si sa, non lascia cicatrici.

“LA CIOTOLA DEL TEMPO”

racconto di una pandemia si spera trascorsa. Tratto da “Tu sei oro sulle mie ferite” antologia edita da Scritto. Io

Tre secondi; era questo il ritmo che il rubinetto di cucina imponeva ad ogni notte. Malgrado lo stillicidio durasse ormai da giorni, mi ostinavo a ignorarlo. Preferivo infatti le gocce all’affanno di avere udienza da sua eminenza l’idraulico e poi chissà, nel frattempo il calcare e l’abitudine avrebbero sistemato le cose. Si, mi considero un uomo pigro o meglio un fatalista.

C’era stato un altro tempo nel passato sepolto in cui ero stato posseduto dalla frenesia del fare e del provvedere, ma anni di pratica e di solitudine mi avevano infine persuaso che anche l’ignavia, così bistrattata, avesse invece una sua nobiltà.

Pochi anni prima di andare in pensione avevo iniziato a mettere a fuoco l’immagine di un me stesso come di un criceto sudato, affannato sulla sua ruota. Pian piano iniziai a pensare che solo quando i giorni si presentano come occasioni uniche vale davvero la pena di non perdere tempo, ma da parecchio ormai non accadeva più e ogni domani era la riedizione leggermente corretta di un oggi qualsiasi.

foto p.Capitini

Si poteva obiettare che nel frattempo il caso, il destino o il karma – vedete voi a chi credere – poteva facilmente interrompere la serie delle repliche facendomi ad esempio schiantare contro un platano sulla Braccianese per evitare un cinghiale che da queste parti sono più frequenti dei gatti. Tuttavia anche in un caso tanto funesto l’affannarmi non l’avrebbe reso meno ineluttabile. Ero quindi sicuro che, fatto salvo il volere di Zeus, i mesi successivi al febbraio 2020 si sarebbero riprodotti per clonazione da quelli precedenti mantenendo la forma di un tempo-contenitore delle banalità quotidiane.

Le mie? Le solite: lavoro, spesuccia, corsetta, cenetta, filmettino, partitina a calcetto. Insomma le solite cose che ti facevano arrivare a sera soddisfatto e stupidamente stanco.

L’evento destinato a scuotere il tempo-contenitore, o peggio a svuotarmelo, arrivò come un insulto mal diretto il 7 febbraio. Mi trovavo a Torino per una conferenza e fino a quel momento avevo solo di rado pensato a quale cataclisma avrebbe mai potuto interrompere la mia confortevole routine di baby pensionato e non ero mai andato oltre un paio di possibilità.

La prima, la più spaventosa, era la malattia incurabile, il “brutto male” lento e senza dignità. Il pensiero riproponeva la necessità di procurarmi a breve una badante balcanica, sicuramente una valkiria insensibile che mi avrebbe maltrattato, derubato ed infine abbandonato agonizzante in un sudicio letto. Meglio sarebbe stato un super attacco terroristico stile “11 settembre”; magari contro San Pietro la notte di pasqua, nell’unica volta in cui avevo deciso di ascoltare dal vivo le parole di questo papa senza numero.

Ogni papa deve avere un numero. Quelli come XXIII o XVIII tradiscono una certa mancanza di fantasia, ma II o V sarebbero andati benissimo invece di chiamarsi Francesco il “Senza Numero”, come il droghiere in fondo alla strada. Lo consideravo un eccesso di modestia. Falso come tutti gli eccessi.

Al virus uscito da una città con un nome da ristorante all-you-can-eat, e portato a casa mia da qualche industrialotto delocalizzatore, non avevo mai pensato.

In tempi di neo-lingua, quando i fiumi non straripano più, ma tracimano e i biglietti non si timbrano, ma si obliterano, gli avevano appioppato un nome da detersivo da hard-discount: Covid-19. Altro che peste nera, vaiolo, ebola o febbre emorragica. Di un Covid-19 veniva solo da chiedersi se i cinesi l’avessero prodotto anche al profumo di limone.

Quando il virus infine arrivò abitavo quella casa da più di vent’anni e in tutto quel tempo non ero stato in grado di riempirne il silenzio con la voce di un altro essere umano, moglie o figli che fossero; così toccava alla televisione renderlo sopportabile, ma tanta era ormai l’abitudine al suo continuo blaterare che non le porgevo più attenzione . Tuttavia dopo un po’ di tempo iniziai a capire che il mio detersivo stava rubando la scena ai politici corrotti, ai “laboratori delle idee”, allo spread e anche al campionato di calcio. Al termine del girone di andata Milan 43, Inter 41 e Juventus 39 punti.

Inizialmente il virus-detersivo era stato derubricato a poco più di un’influenza tanto che ministri e onorevoli invitavano ad abbracciare un cinese; gente notoriamente riservata e poco incline agli abbracci. Poi pian piano, giorno dopo giorno, qualcuno avvisò i ministri e i cinesi che tentavano ancora di sottrarsi agli abbracci che il Covid ci stava ammazzando e male. Per me quel giorno fu appunto il 7 febbraio a Torino.

I racconti di quanto avveniva al di là dei vetri satinati degli ospedali parlavano di persone soffocate in un mare d’aria. Prone, incoscienti, mezze nude e con un tubo in gola; povere crisalidi agonizzanti senza più la forza dell’ultimo fiato, quello con il quale si dice i naufraghi gridino alla notte e al mare il proprio nome prima d’essere inghiottiti.

Dal mio luogo sicuro, sperso nella Tuscia viterbese, il contagio appariva ancora molto lontano, relegato a quel Nord tanto industrioso, sociale e cooperativo che avevo conosciuto anni prima. Per di più il morbo cino-fetente si prendeva solo i vecchi che, diciamolo pure, sarebbero morti già da tempo se non fosse stato per la costosa efficienza della nostra rinnomata sanità pubblica.

foto p.Capitini

Il sole, l’aglio, le arance e tachipirina prima di andare a letto avrebbero salvato il resto. Tuttavia, dopo un paio di mesi dagli abbracci ai cinesi, l’aglio e le arance non bastarono più e con una riedizione adattata del “un-due-tre stella!” la Paterna Autorità ci congelò tutti, lì dove eravamo.

Io fui consegnato a casa mia. Tre piani a metà di una strada chiusa, in un centro storico di poco più di 2500 anime, la maggior parte così anziane da aver già messo in conto la prossima e definitiva visita al Padreterno. Dalle finestre della camera potevo vedere il convento dei Figli di Maria un tempo assai numerosi ma che negli anni si erano ridotti solo a due. Ben presto anche la Vergine Maria non avrebbe più avuto figli, almeno non nella mia strada. In fondo alla via un altro convento, questo però di monache che si erano estinte già da anni, come le foche della Sardegna, monache anch’esse.

Osservando la strada deserta pensai che solo a un virus a stronzaggine geneticamente modificata poteva venire in mente di arrivare fin là. Tuttavia ossequioso all’ordine della Paterna Autorità anch’io mi barricai in attesa di tempi migliori che però non vennero. Al loro posto mi vidi invece recapitare un pacco di giornate identiche a loro stesse. Sarebbero divenute così numerose che alla fine mi costruì un interminabile muro di silenzi dietro il quale mi riparai.

La planetaria serrata aveva dissolto la semplicità meccanica del comodo tempo-contenitore privando il mio tupperware di ore e minuti di ogni usuale contenuto. Da lì in poi mi sembrò che i giorni si sarebbero consumati senza trascorrere. Come un cane fedele le ore tornavano indietro, depositando a terra la loro ciotola. Il mio tempo voleva la riempissi con qualcosa, come avevo sempre fatto. Un po’ di calcetto? Si va a cena fuori? Niente.

Barricato in casa, stavo vivendo in un vecchio film di Romero, quello de “La notte dei morti viventi”. L’alito infetto di uno sconosciuto zombie da supermercato poteva già avermi destinato a un letto d’ospedale. E poi per cosa? Per una vaschetta di fettine di manzo in offerta speciale da 3 euro e 70.

I più lungimiranti tra i non-ancora-contaminati avevano iniziato rastrellare detersivi e farina come fossero in attesa del passaggio del fronte o forse della riapertura del mercato nero. Radio Londra avrebbe presto ripreso a trasmettere alcuni messaggi speciali per i territori infetti.

Nella mia vita precedente mi era già capitato di annusare il lezzo della paura. Di tanto in tanto la memoria mi rammentava il fetore decomposto delle fosse comuni di Sarajevo; lo sguardo dei pastori del Darfur fatti a pezzi dai “demoni a cavallo” o la mano di Dio sollevare i miserabili quartieri di Port-au-Prince. Tuttavia ora percepivo qualcosa di diverso rispetto ai luoghi di tenebra del mio passato. Potevo definirla forse compassione. Era di certo compassione quella luce debole ma calda che protegge i sopravvissuti e promette loro che la notte non sarebbe stata infinita.

foto p.Capitini

Era lei che spingeva gli uomini a pregare; che toglieva vergogna alle lacrime dei soldati e che scuoteva un cuore gelato a donare il gesto che consola. Donna e madre antichissima, era sempre stata la compassione a fare le parti alla mensa dell’angoscia perché ciascuno potesse riceverne non una briciola in più di quanto era in grado di sopportare. Nel chiuso della mia comodità avvertivo invece che era proprio la compassione a essere rimasta fuori e mi domandavo se, in parte, fosse anche colpa mia.

Su questo scoglio di pianeta anche io avevo contribuito a edificare una civiltà in cui la vita, la morte, la compassione e il rispetto erano beni di poco valore e così come il giusto, il bello o il sacro si sarebbero presto trasformati in retorica.

Al tempo degli uomini, una razza sconfitta che si diceva sopravvivesse a stento oltre i confini del mondo tutte quelle erano state parole importanti. Parole per le quali poteva valere la pena morire. Ma nei giorni rattrappiti dagli smartphone, tutto era caduto in mano agli Individui, una razza umanoide i cui membri si consideravano tanto unici e insostituibili da non saper cedere alla compassione neppure una delle loro preziose lacrime. In ogni angolo dell’impero la Paterna Autorità difendeva la vita biologica degli Individui; costi quel che costi e al diavolo gli uomini.

La polvere odorosa di gesso, cumino e lacrime che in un mondo passato mi aveva ricoperto le mani era ormai lontanissima trasformando la vita di molti, compresa la mia in una lunga teoria di respiri.

Il Commissario al Morbo, derubricata l’epidemia da tragedia collettiva a sfiga individuale, impose dunque il distanziamento forzato; recintò ogni luogo; precluse tutti gli accessi. Nessun rito collettivo sarebbe stato possibile per lungo tempo; nessuna pietà familiare; nessun cordoglio. Il mondo di ogni giorno s’era trasformato nel paradiso degli individui e nessuno, me compreso, trovò nulla da obiettare.

Anche la fede nel padreterno fu contingentata. Chiuse le chiese; sospese le messe; i funerali a numero chiuso, morto escluso. Per motivi di salute pubblica anche Dio venne allontanato e se proprio qualche Individuo ne avesse sentito la mancanza l’avrebbe cercato a casa sua, tra il comò e l’armadio quattro stagioni laccato bianco.

Iniziai a provare nostalgia per le crociate, le rivoluzioni; per gli scamiciati del “il quarto stato e per gli studenti in piazza caricati dalla polizia. Ma questo accadeva prima che i mega centri commerciali assassinassero le antiche piazze e le chat ammutolissero le parole. Una resurrezione appariva assai improbabile.

Per riempire il tempo-contenitore si era pensato a qualcosa di più moderno e adeguato, ad esempio cantare fuori dai balconi, fare pane, anticipare il cambio armadio o darsi al fitness da camera. In assenza di piazze e di chiese riscoprimmo il potere consolatorio del lievito-madre e dentro le fortezze casalinghe si sparse il profumo del pane. Fuori solo gli zombie.

Li avrei incontrati ogni giorno nei supermercati sui quali aleggiava un’atmosfera da Patto di Varsavia. Guanti in plastica e mascherina FFP2 si sgattaiolava da una corsia all’altra come tante pantegane impaurite. Ero certo che un improvviso starnuto alla cassa, con il suo potenziale carico virale, avrebbe causato un infarto a qualcuno.

foto p.Capitini

Non professando la religione del lievito-madre e anche per muovere le gambe, avevo comunque preso a scavalcare la recinzione del campo di prigionia e a camminare risoluto fino al mercato brezneviano, distante un paio di chilometri dalla mia strada deserta. Ogni giorno. Sotto il braccio era evidente una sgargiante borsa gialla della Conad che credevo essere indiscutibile e dichiarato lasciapassare.

La pratica così poco individuale insospettì il corpulento e barbuto maresciallo dei carabinieri che dopo un paio di settimane di questo andirivieni finalmente mi fermò.

Lei dove va? Perché non prende la macchina? ⸻ Mi domandò secco con un tono da agente della STASI. Un uomo, anzi un individuo che cammina a piedi e per di più con busta gialla della CONAD, è di per sé sospetto.

Scusi, marescia’, ma è obbligatorio prendere l’auto? Lo dice per casi il DPCM? ⸻ Domandai a mia volta indossando la migliore faccia da scemo di cui fossi capace.

Certo che no, ma è lontano da casa sua, e poi ha fatto poca spesa ⸻  Obiettò il maresciallo. Repressi l’impulso di rispondergli che se mai avessi saputo che sarebbe venuto a cena a casa mia avrei comprato qualcosa in più, ma decisi che era meglio tacere.

Mi lasciò andare ma sapevo che mi teneva d’occhio. Da qualche parte avevano forse aperto un fascicolo a mio nome “Uomo solo a piedi con borsa CONAD. Camminatore pericoloso”.

Avevo trascorso nell’esercito più di trent’anni, parecchi dei quali in posti a dir poco turbolenti uscendone senza un graffio ed ora mi ritrovavo a discutere della mia libera uscita con un maresciallo impiccione e a dividere la mia trincea ammobiliata Ikea con un tempo non impiegabile. Tornai comunque a casa, più preoccupato del fiato dell’untore che del maresciallo.

Chiusa la porta trovai ad attendermi il solito tempo rotondo e solido. Dopo la spesa non avevo davvero nulla da offrirgli per quel giorno.

Come faceva sempre quando non l’accontentavo, prese a fissarmi dentro. Presto ebbi la sensazione di camminare in un giardino avvizzito, circondato da fiori secchi dove lui faceva rimbombare l’eco dei miei insuccessi, delle decisioni mai prese e delle persone che avevo vigliaccamente dimenticato.

In mancanza di altro il tempo-contenitore stava trasformando me nel suo passatempo.

Modificare, plasmare, distruggere, costruire. È il modo che l’uomo ha scelto per conoscere il mondo; per tentare di imprimere la sua piccola orma sulla incandescente sciàra del tempo. Incapaci di vivere il presente, guardiamo al passato per darci coraggio e al futuro per nutrire la speranza, ma il tempo sospeso di quei giorni aveva interrotto la rassicurante catena.

Senza più un futuro replicato non ero più un modificatore, un plasmatore e neppure un distruttore. Come in un quadro di Sironi mi sentivo il povero cristo sotto il lampione di una strada di periferia che non portava da nessuna parte. Un povero cristo che non camminava. Attendeva disciplinato al proprio posto. Da perfetto individuo.

foto p.Capitini

Avrei potuto evocare la magia del fare, ad esempio imbiancare casa o riparare il rubinetto, sperando che la nebbia dell’agire prima o poi sarebbe penetrata anche nella mente. Oppure avrei potuto pregare. Si certo. Meditare sull’esistenza del Dio, sulla sua misericordiosa consolazione e su tutte quelle cose che tranquillizzano i vecchi.

O forse avrei potuto dedicarmi allo studio. Leggere e leggere ancora. Non per imparare, ma per riempire la ciotola. Mi sarei costruito un mondo mio, secondo le mie regole, poi le avrei infrante e me ne sarei date di nuove. In fondo non avevo bisogno di pregare Dio quando io stesso potevo essere Dio, se non fosse per questa nausea che malgrado ogni idea di soluzione attraversava comunque ogni ora dell’inutile notte.

Sul far della sera mi concedevo di seguire un antico consiglio da soldati: “quando non sai che fare, dormi!” Abbandonarmi al sogno, all’immensa prateria dove la mente non si confronta con la realtà, ma la crea e con questa benevola intenzione me ne andavo a letto che avrei condiviso con una gatta semiaddormentata e forse un libro.

Un programma TV con determinazione benedettina, avrebbe proseguito sommesso nel salterio dei morti e dei ricoverati finché su una parola indefinita di qualche pagina dimenticata, sarei finalmente scivolato nel sonno, incamminandomi fiducioso verso l’onnipotenza.

Nel sogno un treno grigio senza senso mi avrebbe attraversato con uno sferragliare infernale, esplosivo, oppure un turco mi avrebbe inseguito senza tregua in un bazar pronunciando parole incomprensibili, mentre correndo avrei tenuto per mano mia sorella.

Non mi sarebbe importato come giungere sulla ferrovia di quel treno, né avrei ricordato la strada per il bazar. Mi sarei sentito cadere giù, precipitando verso il fondo di una vecchia miniera. Lo stomaco in bocca; la voce che non usciva dalla gola e ogni volta ad un passo dall’impatto, mi sarei destato.

Nella tremula luce della TV perennemente accesa avrei cercato di vedere la sveglia. Sarebbero potute essere le quattro oppure le due o una fetta qualsiasi della notte. Quel che contava è che fuori dal mio sogno non sarei più stato onnipotente e sullo scendiletto avrei trovato il cane guardiano del tempo con il naso ancora immerso nella sua ciotola vuota.

Treno, bazar e miniera non l’avevano distratto, ma almeno per un po’ non avevo dovuto lanciargli nulla ed ero stato felice.

Il giornalista di ogni notte mi aggiornava intanto sugli ultimi morti e su quelli che, a dio piacendo, avrei ignorato l’indomani. Vomitava numeri, grafici, tendenze, immagini in campo lungo di ospedali nebbiosi. Da quella faccia da ultimi giorni di Pompei non usciva mai un nome, figurarsi una lacrima. Mi chiedevo se lo pagassero un tanto a morto o se avesse un extra-bonus in caso di maxi-sfiga.

L’imbonitore ce la metteva davvero tutta per apparire toccato dal dramma che si viveva alle sue spalle, giusto al di là del piazzale con vista su palme e ambulanza. Elencava numeri, mostrava grafici e previsioni senza mai raccontare una storia o pronunciare un nome. Ne usciva fuori la macchietta di ragioniere preoccupato di raggiungere la prefissata quota di ansia e di illustrare i mirabolanti provvedimenti che la Paterna Autorità aveva nel frattempo deciso per la salvezza nostra e di tutta la sua santa spesa.

A sentirli elencare mi chiedevo se oltre i polmoni il virus colpisse anche il cervello. Monopattini, banchi a rotelle, palestre chiuse e ristoranti aperti; regioni a colori, calcio si, pallacanestro no e via di questo passo. Solo di cure non parlava nessuno. Nemmeno per azzardare un’ipotesi in prospettiva. Colpiva l’invito rivolto ai possibili contagiati di rimanere a casa in vigile attesa. Ma vigile attesa di che? Di un peggioramento che li avrebbe ospedalizzati e forse ammazzati. Nel frattempo accanto alla purea di patate e al brodino di pollo il ministro consigliava robuste dosi di tachipirina. Sul finire dell’inverno la cura ministeriale aveva ammazzato il mio vicino di casa, rimasto in vigile attesa di un medico che non arrivò.

Guardando quella faccia, empatica come il muso di un’iguana, mi chiedevo se davvero credesse a quel che diceva. Un richiamo all’equilibrio mi venne da Meo, la vecchia gatta, che con occhio ruffiano reclamava cibo. Quei baffi e quel minuscolo naso rosa piazzato a due dita dal mio erano un richiamo alla realtà. Con una natura così vicina, rilassata e ronfante dovevo davvero credere d’essere sull’orlo dell’abisso?

A sentire l’iguana non c’era alcun dubbio salvo poi, dopo avermi ricordato di lavarmi le mani e di rimanere in casa, concludere con un “andrà tutto bene”.

Per la mia apocalisse avrei desiderato qualcosa di più epico, che ne so: un meteorite, gli alieni; un infarto. Questo virus da hard-discount mi deludeva.

Ci sarebbe stato un colpo di teatro che mi avrebbe salvato? Una piccola cosa insignificante come un vaccino miracoloso o il ritorno degli uomini dal loro esilio oltre i confini del mondo e la definitiva sconfitta degli Individui.

Mi piaceva pensarlo e mi tornò in mente una vecchia storia ebraica. “Quando Davide stava scavando le fondamenta del Tempio di Gerusalemme” – racconta la storia– “trovarono un coccio ad una profondità di 1500 cubiti. Davide stava per tirarlo via quando il coccio esclamòNon lo puoi fare! Perché io poggio sull’abisso”.

Quale sarebbe stato il mio coccio ancora non lo sapevo, ma nel frattempo non mi restava che prendermi cura di questo tempo inutilizzabile e ringraziare quanti avevano pensato che tutto sarebbe andato bene. Ringraziare di cosa? Di non avermi mai chiesto se fosse vero.

18 giugno 1815 – WATERLOO

Di seguito pubblico un estratto dal mio lavoro dedicato alla campagna del Belgio del 1815 e al suo epilogo di Waterloo. Un omaggio a quella data davvero storica. E’ la mattina che precede la battaglia. Buona lettura

(foto p.Capitini)

“…a metà giugno un’alba così fredda era davvero rara perfino in quella parte del Belgio, da sempre abituata ai capricci del tempo. Dopo il diluvio della notte la terra aveva risposto ai primi raggi di sole invadendo boschi e campi d’una nebbiolina ostinata che man mano si era mescolata al fumo basso dei fuochi, a centinaia dispersi intorno allo stradone.

Sull’ondulato saliscendi che da Genappe conduceva a Mont-Saint-Jean, tutto sembrava galleggiare in una foschia lattiginosa, dove uomini ed animali si intuivano appena. Qualche sparo o il nitrito di un cavallo bucavano l’ovattato brusio che da un paio d’ore aveva preso ad animare la valle.

il letto da campo di Napoleone alla fattoria de Le Caillou – ultimo quartier generale dell’imperatore la mattina del 18 giugno 1815 (foto p.Capitini)

Alla piccola fattoria detta di Le Caillou, ultimo quartier generale di Napoleone, nelle loro eleganti uniformi blue de ligne, anche i Cacciatori a Piedi della Guardia Imperiale erano fradici, ma l’acqua non aveva fatto perdere loro la compostezza. Durante la notte appena trascorsa avevano protetto il breve sonno dell’imperatore mentre lo scalpiccìo dei battaglioni in afflusso verso la locanda de La Belle Alliance spariva coperto dal fragore dei tuoni.

La fattoria de La Belle Alliance, perno centrale dello schieramento francese a Waterloo (foto p.Capitini).

Poco dopo le sei del mattino aveva finalmente smesso di piovere, ma il fiume di uomini continuava a scorrere imponente sul pavé impastato di fango. Durante la notte tutta l’Armée du Nord si era messa in movimento in direzione nord inseguendo l’armata di Wellington.

All’alba, il Corpo d’Armata di d’Erlon si era fermato tra Plancenoit e la fattoria di Monplaisir, ad eccezione della 4a divisione di Durutte, che l’avrebbe raggiunto in mattinata. La fronte ed il fianco destro del I Corpo erano stati coperti dalla 1a divisione di cavalleria di Jacquinot.

I Corazzieri del IV Corpo di Milhaud, la 3a divisione di cavalleria leggera del generale Domon, la 5a divisione di Subervie insieme alla cavalleria della Guardia avrebbero bivaccato in seconda linea, all’altezza della fattoria di Rossomme. Da dietro il muretto che circondava il piccolo orto della fattoria di Le Caillou, gli Chasseurs non avevano ancora visto passare gli imponenti Corazzieri di Kellerman né le giubbe verdi dei Dragoni di Milhaud. Insieme al II Corpo d’Armata di Reille e al VI di Mouton, si erano fermati attorno a Genappe, circa sei chilometri a sud.

granatiere della Guardia Imperiale di Napoleone, decorato di Legion d’onore (foto p.Capitini)

I reggimenti a piedi della Guardia Imperiale, che come al solito si sarebbero sistemati attorno all’Imperatore, avevano preferito abbandonare lo chaussé ingombro di carriaggi ed artiglierie per proseguire attraverso i campi fino al quartier generale di Le Caillou, ma per via dell’oscurità, della pioggia e del fango solo due o tre reggimenti erano riusciti ad arrivare fin là verso le dieci del mattino del 18 giugno, gli altri sarebbero giunti più tardi.

Per ciascuno degli uomini a ridosso della cresta di Mont-Saint-Jean, che fosse un fante della Ligne, un granatiere della Guardia o un artigliere, il sollievo di non dover più marciare si era comunque ben presto dissolto nel patire di una notte trascorsa sotto una pioggia fredda e interminabile.

(foto p.Capitini)

Come quella di migliaia di soldati senza nome, anche la marcia del soldato Albert Cussac e dei suoi camerati del 72° Reggimento di Linea si era esaurita nei pressi di una collinetta dominata da una grande fattoria abbandonata da poco, simile in tutto a quelle che si incontravano spesso da queste parti. Gettati a terra zaino, bisaccia e moschetto, Albert s’era guardato intorno rendendosi conto che all’appello mancava quasi la metà della compagnia.

Il battaglione era partito da Fresnes poco dopo mezzogiorno ed aveva continuato a cammi­nare fino a notte inoltrata tra campi allagati e sentieri inghiottiti dal fango. Era stato tutto un fermarsi e ripartire per via dell’intasamento prodotto sulla strada e in quelle condizioni marciare era stato un vero tormento.

In quel fango scuro e gelato alcuni avevano perso le scarpe e altri avevano deciso di prose­guire scalzi o calzando un paio di vecchi zoccoli che saggiamente si erano portati dietro. In molti, specie i più giovani, non avevano retto e si erano lasciati cadere ai lati dello chaussée in attesa di riprendere le forze. Era quella dunque la guerra? Una marcia infinita, senza nulla da mangiare, sotto la pioggia e senza poter riposare per giorni.

Soldati della Royal Guards di Wellington (foto p.Capitini)

Da quando s’erano mossi non avevano incontrato l’ombra di un inglese, a parte quelli che giacevano non lontano da un incrocio due o tre leghe più indietro. Laggiù ce n’erano parec­chi. Tutti morti. Qualcuno indossava addirittura una ridicola gonna a quadri. Per Albert era la prima volta che vedeva un uomo con la sottana, se si escludeva Padre Lessart, il curato del paese. Si ricordava d’averne riso con i camerati, ma la pioggia e il passo imposto dai sergenti non gli avevano consentito di vedere altro e nemmeno di controllare se sui cadaveri di quei disgraziati fosse rimasto qualcosa di buono.

Passato l’incrocio, il soldato Cussac aveva continuato a marciare in silenzio, piegato in avan­ti, un piede avanti all’altro come un mulo da miniera, mentre dal bordo dello shakò la piog­gia gli colava direttamente nel collo.

Quando finalmente il capitano Feuillet s’era deciso a dare l’alt, la notte era scesa già da un paio d’ore. Anche il sergente Cunat sembrava sfinito e dopo aver abbaiato qualcosa, era sparito sotto un telo cerato rimediato chissà dove.

Erano trascorsi due giorni dalla loro partenza da Charleroi e tre da quando avevano la­sciato Beaumont attraversando la Sambre. Da allora nessuno aveva più distribuito le spet­tanze, un “pan de munition” o qualche galletta da zuppa ed era troppo buio anche per mettersi a cercare qualche rapa o una cipolla. Ma anche avesse avuto qualcosa da mettere in pentola, in tutta la provincia non era rimasto un solo pezzo di legna asciutta per accen­dere un fuoco.

Shako del 1° battaglione 7° reggimento di linea dell’esercito francese (foto p.Capitini)

Prima gli inglesi in ritirata e poi i reggimenti che li stavano inseguendo avevano fatto piazza pulita di tutto: porte, mobili e finestre comprese. Albert stava imparando a sue spese che per sopravvivere nella fanteria dell’imperatore bisognava avere le gambe di un mulo, il cuore di un leone e lo stomaco di un passero. Tuttavia, in fondo allo zaino, avvolto in un pezzo di carta oleata, Albert custodiva un tesoro: un pezzo di lardo un po’ rancido ma ancora buono, che intendeva tenere per la mattina.

A una ventina di passi da lui la terra si era improvvisamente animata. Qualcuno aveva pensato di trovare un po’ di calore stringendosi ad un camerata e coprendosi con la misera coperta azzurra spalmata di fango, che sembrava garantire un riparo dalla pioggia…”