Oggi è il 18 giugno, un giorno per me da cerchiare sul calendario. In un sabato di giugno come questo, ma del 1836, Alessandro La Marmora riceveva il permesso di re Carlo Alberto per la costituzione di un corpo speciale di fanteria denominato “BERSAGLIERI”.
Come per gli Alpini e i Carabinieri ogni italiano sa riconoscere un bersagliere quando lo vede. A tutti viene in mente il “passo di corsa”, il cappello con le piume e la fanfara. Per chi, come me, ha però avuto la fortuna di servire in uno dei suoi reparti c’è anche altro, molto altro.
Guardando oggi agli anni passati al 28° battaglione “Oslavia” di Bellinzago novarese, al 3° reggimento di Milano e all’8° reggimento di Caserta mi rendo conto della fortuna che ho avuto. In quelle caserme ho conosciuto italiani speciali. Ragazzi di leva che a stento sapevano scrivere il proprio nome, che avevano davanti una vita immaginata in modi diversissimi, ma che per quell’anno si sentivano affratellati in un’esperienza unica, parte di un mondo che chiedeva loro di essere speciali.
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Venivano trattati con estrema durezza, con una disciplina che oggi sarebbe difficile far comprendere eppure rispondevano sempre “Signorsi, PRONTO”. Poi venne la riforma e nelle nostre caserme non entrarono più pescatori, boscaioli, elettrauti, studenti, disoccupati, pregiudicati, laureati. Era iniziato il tempo dei volontari, dei professionisti. Tuttavia, quando il metodo è valido non si cambia e anche loro, come tutte le ragazze che sono entrate nel corpo hanno continuato a rispondere: “Signorsì, PRONTO!“
foto 8° reggimento berasaglier
Perché lo facevano? Perché continuiamo a farlo? Ci ho messo un po’ a capirlo ma credo che la ragione in fondo sia che quando per la prima volta ti metti in testa il cappello piumato e ascolti lo squillo della fanfara avverti che quei simboli parlano proprio a te, solo a te. Non sei più uno dei tanti; sei tu e a te viene chiesto di dimostrarlo ogni giorno. Ecco perché il bersagliere non si piega, neppure davanti al suo capitano: non vuole dargliela vinta!
Sul nostro cappello, nero e largo come quello dei preti, con la coccarda tricolore, il trofeo dorato e le piume nere non si portano insegne di grado. Solo il numero del reggimento. Io oggi sul mio ho il numero “8” e mi onoro di aver portato anche il “3” e il “28”. Altro non c’è, perché sotto quel cappello siamo tutti uguali, bersaglieri e basta, che tu sia caporale o generale si tratta solo di lavori e responsabilità diverse, ma quel cappello che ci rende tutti uguali ci ricorda che prima di tutto siamo, o siamo stati, soldati e italiani.
Da tenente che fui in un gennaio freddissimo di tanti anni fa, ringrazio Emilio, il mio primo comandante di compagnia che mi ha insegnato molto e con lui ringrazio tutti i miei superiori di quei giorni di nebbia e di baraggia: Antonio 1 e Antonio 2, Raffaele 1 e Raffaele 2 e poi Dario, Pio, Umberto, Silvano, Riccardo, Paolo, Giancarlo e molti altri. Alcuni non ci sono più, altri sono ormai anziani, ma con tutti loro mantengo un debito di riconoscenza che non potrò ripagare.
Ringrazio soprattutto tutti i bersaglieri che la Repubblica mi ha affidato. Li ringrazio per la loro pazienza e per la sopportazione che hanno avuto verso di me, per la serietà che hanno messo e mettono in tutto quello che fanno. Da loro ho compreso cosa davvero volessero dire le parole incise in accademia “Uso ubbidir tacendo e tacendo morir”. Anche qualcuno di loro non c’è più, alcuni sono morti in combattimento, altri di malattia qualcuno, come Nicola, ha preferito chiuderla qui. Noi che siamo ancora qui li ricordiamo tutti con un sorriso. Per questo e per tante altre ragioni il 18 giugno, che i bersaglieri in pace e in guerra celebrano SEMPRE, è per me un giorno di fede e di memoria.
le sue parole rimbalzarono oltre la soglia del carcere dove un bel sole di primavera lo attendeva caldo. Solo lui. “Ci si dimentica presto dei morti, dei carcerati e dei marinai” pensò tra sé e sé, gettando un’occhiata indifferente alla fila dei parenti in attesa della visita detenuti.
Appiccicato al vetro dell’ingresso un cartello scolorito avvertiva che “…fino a nuove disposizioni SONO SOSPESI I COLLOQUI VISIVI CON I DETENUTI, ai sensi del d.p.c.m. del 9/3/2020 recante…. l’emergenza epidemiologica da COVID-19….” A suo tempo l’avevano affisso con un doppio giro di scotch marrone, quello che si usa per i pacchi e che non ti fa mai trovare l’inizio. come se per la Direzione avrebbe dovuto durare per l’eternità o forse era la solita mania dei secondini di bloccare tutto e tutti. C’avevano pensato i mesi a scolorirlo.
Con passo rilassato si diresse verso la stazione “Rebibbia” poco distante. La città era da qualche parte alla sua destra, oltre lo stradone che la pugnalava. Ogni periferia è un luogo triste, anzi un insieme di non-luoghi ma quella romana lo è in modo particolare, ma l’insieme di cassonetti strarimanti, palazzi bulgari, macchine insabbiate e topi schiacciati non riuscivano a intaccare la leggerezza di poter camminare in una direzione stabilita da lui stesso. Poteva andare a destra, oppure a sinistra, tornare indietro, correre, strisciare, saltare o camminare all’indietro. Era di nuovo libero. Da quel momento in poi non ci sarebbero più stati superiori, biciclettari, infami, schiavettoni e appelli. O almeno così sperava.
Di fronte al metrò lesse di nuovo “Rebibbia”e decise che di quel nome ne aveva avuto abbastanza. S’incamminò allegro verso “Ponte Mammolo”, la successiva.
Come tutti quelli con cui aveva condiviso il tempo sospeso della galera anche lui era stato ingabbiato ingiustamente. Il popolo italiano, in nome e per conto del quale il giudice aveva parlato aveva visto gli articoli 582, 588, 337 e qualche frattaglia del codice penale di cui ignorava l’esistenza e l’aveva riconosciuto colpevole. Fine dei giochi.
Per fortuna non gli era stato riconosciuto l’articolo 56 – tentato omicidio – e questo gli aveva fatto guadagnare una condanna a soli otto mesi e 12 giorni più il pagamento delle spese processuali. Tuttavia lui non si era mai considerato un colpevole. E lo pensava ancora.
La sua non era di quelle condanne che in carcere ti fanno far carriera. Per intenderci niente associazione di stampo mafioso, omicidio plurimo, rapina a mano armata e neppure truffa o furto con scasso. Tuttavia lesioni gravi,rissa e resistenza a pubblico ufficiale lo catalogavano come uno a cui era meglio non rompere troppo le palle e questo gli aveva consentito di farsi la sua galera in una tranquilla aurea mediocritas.
Dopo quasi otto mesi era comunque cosa passata. Ormai era un liberante.
Era stato rieducato? Si era pentito di aver procurato tanto dolore? Né l’uno, né l’altro. Però aveva imparato a giocare a poker anche barando, faceva un caffè da premio oscar e sapeva ascoltare senza giudicare. Là dentro di cose e di persone già giudicate e mute ce n’erano molte. Tutta gente a cui la vita s’era presentata subito con un calcio in culo, vuoi perché si era nati sulla riva sbagliata del Mediterraneo, vuoi perché si era convinti che esistessero scorciatoie al benessere o solo perché si era stati innamorati della persona sbagliata. Insomma erano i “devianti”, gente che dopo aver accarezzato la vita contropelo ora parlava più con gli occhi che con la voce. E questa per lui era una grandissima qualità.
Era un mondo quello della galera che nulla aveva a vedere con il fuori, ad iniziare dall’odore; un mix di candeggina, piscio, tabacco, sudore e minestrone al quale talvolta si univano le note di qualche profumo costoso o il rancido di ascelle mai lavate. E poi c’erano i suoni e l’assenza di un vero silenzio. Sembrava di vivere nella stiva di una nave dove di tanto in tanto arrivava il tintinnare metallico di qualche chiavistello o lo sbattere cavernoso di una porta. Da quando poi i superiori vestivano come le guardie giurate non se ne sentivano più i passi lungo il corridoio centrale. Gli scarponi neri dalla suola di gomma li avevano trasformati in tanti gatti e questo non era sempre una buona cosa. Peggiore della puzza di galera, dei secondini, del caldo e del tempo bruciato era però la musica. Da tempo la comunità maghrebina di spacciatori e pugnalatori aveva perso la guerra contro i napoletani e per tutto il giorno era un trionfo di neo-melodici con tanto di coro partecipato. Questo secondo lui ben inquadrava il concetto di pena afflittiva.
Ma ormai anche questo non aveva alcuna importanza. Lui era fuori.
(foto p.Capitini)
“Certo che sei stato davvero un pirla a farti ingabbiare per una cazzata simile”. Finiva sempre così quando capitava che raccontasse la sua storia. Lì dentro c’era gente che aveva fatto del crimine un mestiere e della galera un infortunio sul lavoro e altri che avevano liberato la bestia che vive in ognuno e che ora passavano il tempo a cercare di capire cosa non avesse funzionato. Lui era diverso. Era un uomo di principi. Principi del cazzo certo, ma pur sempre principi.
Il fatto era che lui amava le parole o meglio le rispettava, più e meglio delle persone. Non le aveva mai considerate un’emissione di fiato, un esercizio canoro, uno strumento per scassinare l’altrui buonafede. Per lui le parole portavano il vero.
Immaginava che la verità, per una sua magia divina, si appoggiasse alle sillabe, si avvinghiasse alle vocali, si stringesse alle consonanti e via…volasse verso l’orecchio di chi stava ascoltando e da lì al cervello o al cuore. Gravate di una simile responsabilità non potevano essere sparate a vanvera o, peggio ancora, buttate là senza alcun significato.
Non ricordava da quando aveva iniziato a pensarla così, ma era passato tanto tempo da quando aveva deciso che non avrebbe più fatto fatica a capire che cosa l’altro volesse dire, a leggere tra le righe, a interpretare, a chiedere spiegazioni. Vuoi dirmi qualcosa? Trova la parola giusta, appiccicaci un verbo in un modo e in un tempo appropriato, magari sparaci anche un paio di aggettivi e un avverbio e poi parla. Non ci voleva poi tanto, no?!
Viveva invece immerso in una cloaca dove galleggiavano “momentini”, “benaltri” e “caro” che una mignotta non avrebbe saputo pronunciare con maggiore disprezzo. Su tutti però se ne imponevano due che trovava irresistibili: il primo era “assolutamente”, buttato lì come se SI e NO fossero stati aboliti da apposito referendum. Il secondo era “amo’ “, sostantivo tronco bivocalico la cui improvvida pronuncia da parte di chiunque comportava l’immediata dipartita di ogni autentico sentimento amoroso. Erano appunto le parole che l’avevano portato là dentro. Le parole e anche la necessità di trovarsi e mantenere un lavoro qualsiasi.
Era stata la necessità di trovare uno straccio di lavoro con cui barattare denaro con sopravvivenza che tre anni prima lo aveva portato a sedersi a un tavolino di un bar nel centro di Roma.
Aveva appuntamento con un tale di nome Sergio o Giorgio – il cognome lo troverete negli atti del processo – che aveva messo un annuncio su “porta portese” per un lavoretto facile di cui non ricordava più i dettagli. Ricordava però che Sergio, o Giorgio, gli aveva chiesto di vedersi in quel posto. “È vicino al mio ufficio” – aveva detto – “ ma si trova sempre parcheggio, stia pure tranquillo”. Quella frase buttata lì l’avrebbe dovuto insospettire visto che a Roma non si trova parcheggio neppure nel tuo di garage, figurarsi a Prati, crocevia mondiale di avvocati, clienti del tribunale, turisti vaticani, clienti in cerca di saldi e altra umanità automunita. Aveva comunque deciso di andare e ora se ne stava seduto già da un quarto d’ora a un tavolino in metallo simil-Provenza con piano in marmo decorato da aloni di caffè zuccherato.
Era sempre in anticipo. L’idea di essere in ritardo lo faceva infatti piombare in un ansia nera che lo avrebbe messo di pessimo umore per il resto della giornata. Aveva quindi volteggiato come un condor per oltre tre quarti d’ora alla ricerca di un parcheggio e infine aveva trovato un buco tra un cassonetto strapieno e un divieto di sosta sbilenco che però poteva essere interpretato. Aveva pagato il ticket per quel parcheggio immaginario sperando che l’eventuale ausiliario del traffico l’avrebbe considerato un gesto di buona volontà evitandogli i 41 euro della multa.
Stava osservando il piccione che impudente razzolava da un po’ tra le gambe sbilenche del tavolino quando lo vide arrivare. Sergio, o Giorgio, era in ritardo di oltre venti minuti.
“qualche problema?” Domandò con un velo di ironia che Sergio-Giorgio non colse.
“Assolutamente” rispose candido.
Un brivido gli percorse la schiena. “Cazz…eccone un altro degli assolutamenti”.
Decise comunque di passarci sopra. Aveva bisogno di un lavoro e Sergio-Giorgio poteva offrirgliene uno. Dopo tutto “Parigi val bene una messa”.
“Ordiniamo qualcosa ?” propose tanto per nascondere il fatto che aveva iniziato a indispettirsi.
“assolutamente” replicò di nuovo Sergio-Giorgio senza staccare gli occhi dal culo di una ragazza americana ferma al bancone. Un’altra stilettata attraversò il cuore che prese a battere più forte e un leggero velo di sudore gli imperlò la fronte.
“ Che prennete?” Domandò la solita, sgarbata cameriera romana che non sarebbe sopravvissuta dieci minuti in un bar di Padova.
“ una coca” lo prevenne Sergio-Giorgio. “Ce vole ‘l ghiaccio?” chiese annoiata.
“Assolutamente”. Terzo colpo. questa volta mortale.
(foto p.Capitini)
Fu in quel momento che una rabbia nibelungica s’impossessò di lui. Per un attimo si sforzò di dominarla ma tutto dal cervello, al cuore, a tutto il corpo gli ripeteva in un coro polifonico “Assolutamente che? Assolutamente sio assolutamente no?”
Sorrise rassegnato, Sergio-Giorgio rispose sorridendo a sua volta, senza capire. Si piegò leggermente in avanti, protese entrambe le mani verso Sergio-Giorgio, gli avverrò saldamente le ciocche dei capelli e iniziò a sbattergli la testa sul marmo del tavolino stile-Provenza.
“A-S-S-O-L-U-T-A-M-E-N-T-E che? Brutto stronzo ritardatario!” continuava a chiedere pacatamente mentre SErgio-Giorgio tentava di liberarsi da quel demone vendicatore.
Il rumore della testa di Sergio-Giorgio che ritmicamente impattava contro il marmo fece girare tutti gli altri clienti senza che però nessuno muovesse un dito. Alla quinta o sesta capocciata Sergio-Giorgio riuscì infine a liberarsi. Aveva il viso coperto di sangue, forse aveva perso un paio di denti e anche l’arcata sopraccigliare destra era messa male. Sergio-Giorgio lo guardava sbigottito mentre il sangue colava sulla camicia celeste e la bocca aveva iniziato a dolergli in modo insopportabile. Era più che sufficiente, “assolutamente” era stato vendicato ed era ovvio che ormai di lavoro non avrebbero più parlato. Stava dunque per alzarsi e andarsene quando la coatto-cameriera guardò Sergio-Giorgio negli occhi e urlò al padrone del bar “ Chiama i carabbinieri, questo è mmatto”.
Qualche volta viene da chiedersi se qualcuno in un mondo parallelo faccia scommesse su di noi. Non c’era altra spiegazione se non questa al fatto che Sergio-Giorgio, tra le centinaia di opzioni possibili, compresa quella di tacere, rispondesse ancora “assolutamente”. Sospirò deluso e via con altre botte, calci, pugni poi carabinieri, insulti, ancora botte e quindi manette. Tutto questo, dal popolo italiano e dal giudice che parlava in sua vece, era stato considerata non un’azione in difesa del decoro verbale ma una violazione dell’articolo 582, 588 e 337 codice penale. L’unica soddisfazione era stata che per tutto il processo Sergio-Giorgio non aveva mai; mai una sola volta pronunciato la parola “assolutamente”. Mai.
Ma tutto questo era ormai il passato. La primavera e il sole caldo lo accompagnavano mentre camminava sereno verso il metrò stazione Ponte Mammolo.
In quel preciso istante lo assalì una voglia irrefrenabile di cappuccino e cornetto. Il Bar da Ezio era lì, provvidenziale. “Un cappuccino e un cornetto, grazie” ordinò. “Ce li hai ai frutti di bosco” aggiunse. “assolutamente” rispose il barista e immediatamente un odore di candeggina, piscio, tabacco, sudore e minestrone lo avvolse.
Piana di Castelluccio e la mia Royal Enfield (foto p.Capitini)
Chissà quando per me sarà l’ultima volta.
L’ultima volta che farò l’amore; l’ultima volta che girerò l’angolo tra via Carducci e corso Matteotti; l’ultima volta che ascolterò quella voce, che guarderò in quegli occhi e solo in quelli, che vedrò una goccia di pioggia scivolare sul vetro e l’ultima volta che mi godrò una frittura calamari e gamberi.
Nessuna ultima volta sa di essere proprio l’ultima e ogni azione si schiera in buon ordine nella lunga fila delle cose accadute, proprio dietro a quelle che accadranno ancora. Una fila senza angoli e senza orizzonti. Eppure ci sono già state inconsapevoli ultime volte. E molte. Troppe? Non saprei, ma adesso ho la piena coscienza che ce ne saranno altre, sempre di più. Fino ad arrivare all’ultimo respiro.
Non ci avevo mai pensato a questa storia dell’ultima volta. Era stata Alessandra a farmici riflettere con quel suo modo asciutto ed elegante da nobildonna siciliana. “C’hai mai pensato all’ultima volta che faremo qualcosa?” “io no!” avevo risposto di getto ma era troppo tardi, la domanda aveva già preso a scavare nella fragile crosta della coscienza fino ad arrivare alla melma dell’ansia.
(foto p.Capitini)
Forse era stata la consapevolezza di non sapere dell’ultima volta che mi aveva perciò fatto comprare questa Royal Enfield del 2016, un ammasso di ferro ritmato, su cui da qualche giorno sto viaggiando per le strade rifatte del cratere.
Un monocilindrico post-bellico da 500 centimetri cubici e solo 27 cavalli, forse meno. Poco più di una falciatrice.
Consuma poco, corre poco, frena poco. E chiede poco. Solo olio, una mano delicata sull’acceleratore e un fondoschiena paziente. Sono i vantaggi di un motore super quadro, un’altra maniera per descrivere l’unico pistone a corsa lunga che nei momenti di energia e di buon umore va su e giù meno di tremila volte al minuto mentre il resto del mondo motociclistico era già passato da anni oltre i diecimila. Un’altra conferma, caso mai ce ne fosse bisogno, che vivevo ormai in un mondo splatter, ipercinetico e talvolta noioso.
Scalo in terza e inizio la salita che porta a Forca di Presta. Che nome: “forca di Presta”. Ti aspetti che da un momento all’altro appaia una fata oppure un cavaliere su un cavallo nero. Un nome che suona come un luogo segreto da “Signore degli Anelli”. Magari ci vive persino un drago.
I Sibillini vista dal Monte Sibilli (foto p.Capitini)
” Che scemo” – penso tra me – “dopo il terremoto non ci vive neppure lui“. Anche al drago di Forca di Presta – ammesso sia mai esistito – hanno chiesto di delocalizzarsi. E si sa, il potere delle parole morte, spegne il fuoco di ogni drago.
Mentre il vento si alterna sulle guance a seconda della curva, ripenso a questa storia delle parole morte. La moto per me è quello che Peter Handke avrebbe chiamato “il luogo tranquillo“, quell’unico posto, intimo e inattaccabile, dove poter pensare a quello che si vuole, incluse le parole morte.
Sono quelle che hanno bisogno di mura e di documenti ufficiali per proteggersi, di regole a custodirle. Senza queste corazze, esposte all’aria e agli occhi degli uomini semplici, cadrebbero a terra come foglie. Fiati senza ragione. Per quello il linguaggio della burocrazie le aveva scelte, protette ed allevate con cura.
“Delocalizzare”, “Obliterare”;…. se provo a pronunciarle davanti a una fonte, sul crinale grigio di un monte, sullo sciabordio della battigia al tramonto, cadranno a terra senza avermi causato un battito di cuore. Un solo perfetto battito. Solo parole morte di un mondo di cartone.
Arquata del Tronto – frazione Pretare (foto p.Capitini).
Il vento che soffia dal pian grande di Castelluccio spinge quasi più del monocilindrico. Più sotto, verso la valle del Tronto mi aspetta Antonio, un pastore che di parole morte non s’intende, ma di morti si.
Era fuori con il gregge la notte che i Sibillini avevano tremato e il tremore si era portato via più di cinquanta persone a Pescara del Tronto, una frazioncina in bilico tra quattro regioni diverse e ignorata da tutte allo stesso modo. Antonio era rimasto per mesi con le sue pecore tra le macerie della sua vita. Ecco perché di morti se ne intendeva.
Sorpasso il valico di Presta, giusto dove inizia il sentiero per il Vettore, il monte. Ci salirò, ma non oggi.
Giù ad Arquata del Tronto mi dovrebbe aspettare Antonio e un caffè.
(fine prima parte).
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