Può la tecnologia e la distanza disumanizzare ancor di più la guerra?
“ La vita qui è durissima. Nella trincea il tanfo della morte regna ovunque. I ratti ci danno il tormento mentre i pidocchi ci divorano la pelle. Viviamo nel fango che ci inghiotte, ci serra le gambe. Un vento glaciale ci gela le ossa senza darci tregua. Essere pronti! Pronti in ogni momento. Pronti all’assalto. Pronti a morire. Uccidere! Questa è la parola d’ordine della nostra storia…a presto mia adorata”.
Museo di Piana delle Orme, LT (foto P.Capitini)
Quello che avete appena letto è uno stralcio di una delle migliaia di lettere con le quali durante la prima guerra mondiale gli uomini delle trincee tentavano di raccontare al mondo della pace quale fosse il loro: quello della guerra. Cento anni fa l’Occidente scopriva così l’orrore della guerra industriale, ma lo faceva con i paradigmi culturali del secolo precedente. Negli occhi dei giovani che nell’agosto del ’14 marciavano sorridenti verso la frontiera franco-belga non c’erano il fango, né il filo spinato; i gas asfissianti o l’artiglieria. In quel mese d’euforia vivevano, o forse solo si illudevano, di vivere ancora la pericolosa avventura di una guerra d’estate, colorata e breve; la guerra giusta decisa dalla Patria contro un nemico brutale e sconosciuto. Il risveglio traghettò l’Europa intera in nuovi territori, poveri e incerti, dove uomini sulfurei e affascinanti, anch’essi abortiti dalle trincee, si sarebbero dimostrati capaci di terminare il massacro iniziato vent’anni prima.
Mentre scriveva alla sua Edith, sepolto in qualche buco a Verdun, il soldato Pierre D’Augustin era certamente inconsapevole di quanto quel mondo alieno di sangue e fango l’avrebbe trasformato per sempre in qualcosa d’altro. Cento anni fa era stata proprio la guerra tecnologica, il massacro industriale a partorire la nuova umanità, pronta o forse rassegnata ad accettare la guerra di annientamento. In quel tempo era stata la metallurgia delle nuove leghe iper-resistenti, la chimica degli esplosivi e dei gas, la meccanica dei camion e degli aerei a modernizzare l’atavico bisogno di uccidere. E oggi? Quali sono i riferimenti culturali profondi con i quali proviamo a decodificare le guerre di oggi, compresa quella russo-ucraina di questi giorni.
Museo storico dell’Aeronautica militare – Vigna di Valle, Bracciano (Roma) . (Foto P.Capitini)
Nei vent’anni compresi tra il collasso politico e militare dell’Unione Sovietica, l’anarchia predatoria di Eltisin e la successiva pacificazione imposta da Putin il mondo si era convinto non solo della fine della storia, ma anche della guerra relegata a qualche operazione di polizia contro qualche malintenzionato signore della guerra o qualche stato canaglia. La guerra, quella vera, poteva essere forse derubricata ad incidente. Tutti al tempo credevamo possibile la separazione tra lo spazio della guerra e quello della pace. La dottrina NATO della Air-Land-Battle e dello shock and awe dominavano il primo; la CNN e l’inizio di internet il secondo. Entrambi gli spazi si tenevano ben a distanza come nel 1916 era stato per Edith e Pierre.
Museo di Piana delle Orme – Latina. Camionetta FIAT -SPA AS37 (foto P.Capitini)
Sul campo di battaglia “i magnifici cinque” vale a dire il carro Abrams, il cingolato per fanteria Bradley, il lanciarazzi multiplo, l’elicottero Apache e il cacciabombardiere A 10; dominavano lo spazio della guerra. Tuttavia, pur nell’enorme divario tecnologico e nell’incomparabile potenza distruttiva che li separava dalle armi di cento anni prima, si era comunque mantenuto un legame tenace con quei campi di battaglia. Che fosse una mitragliatrice minimi o una schwarzlose, un biplano Bleriot o un A10 dietro ciascuna di esse c’era comunque un soldato, un uomo che non poteva fare a meno di guardare in faccia il volto insanguinato della battaglia. Stime del dipartimento della difesa americano stimano che una percentuale variabile dal 14 al 16% tra gli ex-combattenti in Afghanistan e in Iraq siano stati colpiti da sindrome post-traumatica, segno di quanto quella visione abbia lasciato solchi profondi nelle loro anime.
Saint Marie Eglise -Normandia (FR) Museo dello sbarco (foto P.Capitini)
Dal febbraio 2022 mentre nei campi di Ucraina si combatte una guerra d’altri tempi, nei cieli di quella terra e nel buio dello spazio extra-atmosferico si muovono nuove armi. Si tratta del primo affacciarsi del nuovo spazio della guerra, quello definito del multidomain; uno spazio che ha definitivamente inghiottito lo spazio della pace, partorendone uno nuovo, quello della competizione permanente. La guerra non sarà più una faccenda militare, ma una condizione costante dei rapporti tra stati e coalizioni di stati. Un combattimento aperto a nuovi campi di battaglia- nuovi domini appunto- sovrapposti o integrati a quelli terrestre, aereo e marittimo. Sono i domini dello spazio extra-atmosferico popolato dai satelliti e quello cybernetico su cui transita la vita economica, politica e di relazione dell’intero pianeta. Su un campo di battaglia così allargato iniziano a comparire nuove categorie di armi e nuove truppe. Tra i primi si stanno definitivamente affermando i velivoli senza pilota, i cosiddetti droni; tra i secondi giovani hacker e le nebulose possibilità offerte dall’intelligenza artificiale. Era il 1984 quando il regista James Cameron immaginava Terminator, un cyborg guidato da un’intelligenza artificiale e ostile a caccia di umani in un allora lontano 2029.
MIRAGE francese sulla base aerea di ABECHE, Ciad (Foto P.Capitini)
Ora, nel 2023, droni armati di missili, pilotati da qualcuno seduto a qualche centinaia o migliaia di chilometri ripropone la stessa caccia. L’idea di una guerra che costi sangue e vite solo al nemico si riaffaccia ancora una volta. Combattere senza dolore, distruggere senza dover provare emozioni. Questo sembra essere la novità rispetto alla guerra di Pierre e della sua fidanzata Edith, dei marines sulla spiaggia di Iwo Jima ma anche dei legionari romani nella selva di Teutoburgo: la separazione del dolore e della emozione dall’atto di combattere.
Nella guerra da remoto che sembrerebbe essere il nuovo scenario l’atto dell’uccidere non è più una questione tra uomini, ma una faccenda tra uomo e qualcuno derubricato a bersaglio o a “target” come si usa dire in un ulteriore tentativo di edulcorazione. Tuttavia, quando si interrompe il legame umano tra soldati che si fronteggiano correndo i medesimi rischi, si interrompe anche uno dei possibili interruttori che da sempre hanno consentito alle guerre di avere una qualche sorta di mitigazione. Parlo dell’orrore, della repulsione a commettere violenze oltre un determinato limite che si intende come accettabile. Parlo di quella sensazione che impedisce di uccidere il soldato che esce dalla sua buca con le mani in alto. Questo sentimento deriva unicamente dall’aver condiviso tra combattenti le stesse sensazioni ed emozioni del proprio nemico, di considerarlo quindi umano e non un semplice bersaglio o uno punteggio da video-game. E’ ancora nella profetica capacità del cinema di intravedere il futuro che troviamo una perfetta sintesi di questo pericolo. In Apocalypse Now sono le parole pronunciate dal colonnello Kurtz davanti a un ammutolito capitano Willard a chiarire perfettamente il significato del condividere lo stesso campo di battaglia: ”..Io ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei, ma non ha il diritto di chiamarmi assassino. Ha il diritto di uccidermi…ma non ha il diritto di giudicarmi”.
La nuova guerra combattuta a distanza, lontano da quell’orrore che consente comunque di sentirsi soldati e non assassini, potrebbe essere la nuova frontiera superata la quale si entrerà in un paese di mostri innocenti.
In attesa dell’annunciata offensiva proviamo a riflettere su cosa potrebbe accadere, dove e…quando.
Modellino di obice semovente M109 L dell’esercito italiano
“Nessun piano sopravvive all’impatto con il nemico”, ammoniva von Moltke il Vecchio che di piani se ne intendeva visto che era stato padre dell’effcientissimo stato maggiore prussiano; figurarsi poi quando del piano non si sa nulla e anche sul nemico le notizie sono incerte, sospese come sono tra realtà e propaganda. E ‘il caso dell’attesa offensiva ucraina che, almeno nelle intenzioni di Kiev, dovrebbe dare una spallata durissima se non addirittura definitiva all’operazione militare specialedi Putin che dopo quattordici mesi di “speciale” ha solo il numero delle vittime e il non aver conseguito neppure uno degli obiettivi strombazzati all’inizio. In assenza di azioni sul terreno, di fughe di notizie o di altri clamorosi colpi di scena non resta che affidarci alla logica e all’esperienza per tentare di intuire che cosa avverrà – forse – nei prossimi giorni. Attenzione però, logica ed esperienza sono le due qualità che rendono un piano prevedibile; qualche esempio? Che ne pensate del D-Day. Nel giugno del 1944 l’intero esercito tedesco attendeva gli alleati tra Capo Gris Nez e Calais, lungo il canale della Manica e perché? Perché era il posto migliore e più logico. Inutile ricordare le spiagge normanne di Omaha, Utah o Sword, 500 km più a sud. E qualcuno forse si aspettava di vedere Annibale discendere con gli elefanti dal piccolo San Bernardo? Anche questa volta, c’è da scommettere, succederà la stessa cosa, ma nell’attesa possiamo divertirci a immaginare il piano perfetto.
Ricostruzione sala operativa presso il Bunker M.te Soratte
Iniziamo come al solito con il terreno. Un immensa pianura con pochissimi rilievi, acquitrini, boschi, fiumi e fango. Tanto fango da meritare un nome proprio:“rasputitza”. Due volte l’anno la “rasputitza” paralizza ogni sentiero, ogni viottolo e ogni strada che attraversa la steppa. Solo le grandi autostrade e le statali asfaltate rimangono più o meno all’asciutto, ma sono rotte tracciate su un mare di fango, note a tutti, facilmente sorvegliabili e facili vittime dell’artiglieria o dall’aeronautica. Metterci sopra decine e decine di carri armati, i veicoli trasporto per la fanteria, i semoventi di artiglieria o gli autocarri della logistica necessari alla grande offensiva è per lo meno imprudente. E’ pur vero che anche sulle Ardenne, nel dicembre 1944, con un clima infernale e attraverso un terreno impossibile, nessuno tra gli Alleati spensieratamente diretti al Reno si sarebbe aspettato di essere tramortito da oltre 1500 carri armati tedeschi lanciati in offensiva. Aspettare l’inizio dell’estate e la fine della “rasputitza” rimane quindi solo l’opzione più logica; non necessariamente migliore.
Semoventi di artiglieria e veicoli per la fanteria in movimento durante la “rasputitza“
Per il QUANDO si parte dalle date simboliche. La prima è il 9 maggio, anniversario della vittoria sovietica sulla Germania nazista nella grande guerra patriottica. Purtroppo sia il 18 marzo, data in cui i russi si sono annessi la Crimea, sia il 24 febbraio, ricorrenza dell’infausta invasione del Paese, sono passati e il 7 ottobre, compleanno di Putin, è troppo lontano. Meglio dunque lasciar perdere le date simboliche e considerare il prossimo 9 maggio rimane un giorno come un altro.
Quindi la risposta a quando l’offensiva potrebbe partire la logica vorrebbe che si rispondesse in un periodo compreso tra il 15 maggio e il 15 agosto. Ma potrebbe anche scatenarsi domani.
Parata del 9 maggio a Mosca – particolare.
La seconda domanda riguarda il DOVE. Su un fronte immobile di oltre 800 km non è facile trovare un tratto di 10 o 20 km dove il terreno sia quello giusto e dove, contemporaneamente, il nemico sia stato così babbeo da lasciare poche truppe, magari male armate, non coordinate, poco motivate e senza grossi supporti. E non basta. Questo tratto, una volta individuato e forzato, dovrebbe condurre a un obiettivo di rilevanza decisiva. Potrebbe essere una città, uno ganglio vitale per la logistica oppure il posto dove si sono concentrate le sue migliori unità o qualunque altro obiettivo in grado di sconvolgere l’intero assetto del fronte. E non basta ancora. Si tratta anche di individuare dove nel frattempo il nemico non abbia ancora predisposto delle linee difensive di una qualche rilevanza. Si parla di un sistema di trincee, di ponti demoliti, di campi minati e di tratti allagati.
tratto del sistema difensivo russo nell’oblast di Zaporhizhzha
Tutte predisposizioni che rendono la difesa più forte e in grado di assolvere il proprio compito che non è vincere, ma guadagnare tempo, facendo consumare all’attaccante il massimo delle energie umane e materiali per passare a propria volta all’offensiva. Sempre ad averne la forza.
Di una cosa si può essere certi: dalla foce del Dnepr a Kharkiv i russi hanno perfettamente chiaro che per far fallire l’offensiva è sufficiente “assorbire il colpo”; rallentare la punta di lancia ucraina prima che questa raggiunga un punto vitale.
Quali sono allora questi “punti vitali” russi nei territori occupati? Dipende da cosa si guarda. Ad esempio la rete ferroviaria che collega la Russia alla zona di combattimento. Da lì passa la quasi totalità del flusso logistico che non solo alimenta l’armata di Putin, ma anche sei o sette milioni di civili che nel Donbas, nella regione di Zaporizhzhia o in Crimea ci vivono. Sostituire i treni con i camion non è pensabile, vuoi per la scarsità e la poca affidabilità dei vecchi Ural o dei KamAz, vuoi per lo stato generale delle strade, vuoi infine per le distanze da coprire.
camion russo KamAZ 4310
La rete ferroviaria può quindi essere un obiettivo per lo meno operativo, soprattutto i suoi punti nodali, gli snodi, i ponti e così via. Qualcuno però potrebbe ricordare che una rete di trasporti, sia essa stradale o ferroviaria è più che altro un facilitatore. Non basta quindi colpire i binari perché sostituirli è questione di poche ore. E’ necessario impossessarsi fisicamente delle stazioni, come ad esempio quella di Backmut dove prima che la Wagner la occupasse arrivava una buona parte dei rifornimenti ai difensori della città. Insomma per bloccare le ferrovie ci vogliono non solo i missili ma anche i soldati che dopo averli conquistati difendano gli snodi principali.
Altro obiettivo significativo è l’acqua, non quella degli acquedotti, ma quella che consente alla Crimea di sopravvivere. Mi riferisco al lungo canale nord Crimeache da Nova Kackovka dirotta un fiume di acqua dolce alla Crimea assetata. Non a caso, nella prima fase dell’invasione russa il controllo del canale era stato l’obiettivo principale delle forze russe provenienti dalla Crimea. Privare la penisola crimeana di gran parte dell’acqua potrebbe inoltre innescare un fuggi-fuggi generale verso la Russia oltre che uno smacco per Mosca e questo senza dover metter un solo piede da quelle parti.
la diga di Nova Khakvoka a nord di Kherson da cui parte il canale nord Crimea
Si potrebbe pensare anche di tagliare in due il cosiddetto “corridoio crimeano”, quella striscia di terreno occupata dai russi che da Mariupol arriva fino all’imbocco della Crimea con un’ampiezza di circa 200 km. Se si volesse perseguire questo disegno si potrebbe seguire l’autostrada M 18 che da Vasylyvka porta a Melitopol oppure passare per Tokmak, percorrendo la statale 30 e puntare su Mariupol.
Perché infine non considerare di sferrare un robusto contrattacco dalle parti di Bakhmut, magari approfittando della confusione che certamente accompagnerà la possibile e assai probabile caduta della città nei prossimi giorni?
Guardando al terreno le opzioni, anche se non illimitate, non sono dunque poche; tutte logiche e ragionevoli e, come si è detto, prevedibili.
Si può invece pensare di non porre il terreno come obiettivo ma l’uomo. Certo non il povero Sacha preso dalla Russia profonda e spedito a combattere il Donbas, ma il sistema-esercito che da tempo Putin tenta di rafforzare e potenziare.
Soldati russi siberiani
Se da oltre sei mesi i generali russi non possono vantare alcuna vittoria, se a Backmut a spingere sono solo i tagliagole della Wagner; se il girotondo di sostituzioni di comandanti non sembra essersi interrotto, vorrà pur dire qualcosa, anche perché un esercito efficiente, ben armato e ben guidato di solito non scava buche per difendersi, ma cerca di vincere la guerra attaccando. Sotto questa prospettiva è la struttura stessa della forza militare russa a rappresentare una vulnerabilità.
Quando si parla di “esercito-russo” ci si dimentica spesso che in realtà si tratta di quattro entità diverse e spesso contrapposte. La parte del leone la gioca l’esercito vero e proprio, quello erede dell’Armata Rossa di sovietica memoria. Accanto all’Esercito si trova la Vozdušno-Desantnye Vojskameglio nota come VDV che inquadra i ragazzoni dal basco azzurro e dalla maglietta a righe delle truppe aviotrasportate e delle forze speciali.
Soldati russi della VDV
Nelle retrovie del fronte troviamo la Guardia Nazionale o Rosgvardija, una via di mezzo tra la Guardia Nazionale e la “Celere” alle dirette dipendenze di Putin e infine i mercenari del Gruppo Wagnerdi Prigozin. I “wagnericoli” non sono però i soli soldati privati che occupano le trincee del Donbas. Accanto a loro troviamo ad esempio quelli dei battaglioni “Urals” reclutati e finanziati dal magnate del rame Igor Altushkin, i gruppi cosacchi di Konstantin Malofeev o anche la Redutdi Gennady Timchenko senza dimenticare l’esercito privato di Gazprom. Tanta gente, reclutata tra gli strati più indigenti della popolazione che per 240.000 rubli al mese (circa 3.000 euro) è disposta a giocarsi la pelle in Ucraina.
Patch del gruppo Wagner
Esercito, VDV, Rosgvardijia, e paramilitari, o meglio i loro capi, perseguono obiettivi diversi, spesso personali e in contrasto e il livello di coordinamento tra loro è al minimo. Tutto questo non rappresenta certo per l’armata russa in Ucraina un punto di forza; tutt’altro. Non dimentichiamoci però della marina e dell’aeronautica. La prima, dopo l’affondamento del Moskva e qualche altra disavventura se ne sta rintanata nei porti della Crimea attenta a non farsi affondare qualcos’altro da qualche intraprendente drone ucraino. L’aeronautica, pur vantando una schiacciante superiorità di velivoli su quella ucraina, non si spinge oltre il supporto ravvicinato alle unità di terra a ridosso della linea del fronte. Il sistema contraereo ucraino è ancora troppo pericoloso per azzardare qualcos’altro.
L’incrociatore lanciamissili russo Moskva poco prima di affondare nel mar Nero
E non si tratta solo di questo. Sono infatti note le lacune del sistema addestrativo russo, specialmente per gli incarichi tecnici come meccanici, tecnici elettronici, addetti alla manutenzione dei velivoli, armaioli e così via. Anche la situazione dei comandanti di minori unità – tenenti e capitani – è precaria e la burocrazia che pervade e rallenta ogni attività non fa che rendere il quadro più fosco. Ecco allora che un colpo ben assestato contro una parte selezionata di questo eterogeneo esercito potrebbe indurre tutto il resto a pensare che ormai sia inutile continuare a combattere. Noi italiani ne sappiamo qualcosa. Dopo undici sanguinose e durissime offensive sull’Isonzo bastò infatti un buco di qualche chilometro tra Plezzo e Tolmino per causarci quasi 300.000 prigionieri e portarci ad un passo dalla resa.
In queste ore scopo dello stato maggiore ucraino potrebbe forse essere individuare il ventre molle dell’armata di Mosca; capire quali siano quelle unità che per mille ragioni non sono così entusiaste di dare la vita per la Madre Russia e lì colpire duro.
Carro britannico challenger
In tutta questa riflessione non possiamo però prescindere dal considerare anche lo stato dell’attaccante. L’esercito ucraino è pronto per l’offensiva? A sentire il presidente Zelensky e i suoi ministri non vedrebbe l’ora mentre a dar retta ai documenti trafugati da Jack Texeira come pure al generale Mark Milley, capo di Stato maggiore degli Stati Uniti, sarebbe meglio aspettare ancora.
Geolocalizzazioni, filmati Tick-Tock, video Telegram ci hanno convinti di sapere ormai tutto dell’arsenale ucraino, delle sue condizioni e delle sue vulnerabilità. Pochi i carri armati, niente F-16, sistemi controaerei con il contagocce, crisi negli arruolamenti e così via. Eppure Zelensky si dichiara pronto all’offensiva e indica obiettivi ambiziosi; molto ambiziosi. “Certo” – si obbietterà – “che cosa potrebbe dire se non indicare l’inevitabile vittorio finale?”.
carro russo a Backmut
Diceva von Bismark, il baffuto cancelliere padre dell’unificazione tedesca che non si mente mai così tanto come prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia. E allora perché non credere che si stia mentendo anche ora – ovviamente a fin di bene – quando si sbandierano sconfortanti dati relativi ai Leopard 2 o a M109 L che non si mettono in moto. Siamo proprio sicuri che in questi mesi, giorno per giorno, notte dopo notte non sia arrivato in Ucraina occidentale molto più materiale di quanto pensiamo? Non sarebbe certo la prima volta. E cosa ci sarebbe di strano se compagnia dopo compagnia, senza dare troppo nell’occhio qualche reggimento non fosse già da oggi a Kherson o a Zaporizhzhia o, perché no, già pronto dalle parti di Kramatorsk o Sloviansk.
Esaurito in parte il computo delle possibili opzioni a noi non resta che attendere e restare sorpresi ricordando della massima di un altro famoso generale, George Patton per il quale “un buon piano messo in pratica subito è decisamente migliore di un piano perfetto che verrà avviato la prossima settimana”.
Nel 1958 l’Italia si trovò a volare “..nel blu dipinto di blu” . La dittatura era finita e con essa le bombe sulle città e le sirene degli allarmi antiaerei; erano arrivati i soldi del piano Marshall, i partiti e le elezioni. Le donne finalmente votavano. A guardare da vicino le condizioni del paese, uscito sconfitto dalla guerra, c’era poco da stare allegri eppure quaranta milioni di italiani volavano nel cielo infinito credendo che un giorno così non sarebbe tornato mai più.
Domenico Modugno nel 1958 canta a San Remo “Nel blu dipinto di blu”.
Appena dieci anni dopo, nel 1968, la stessa gente si avviava verso la depressione pessimistica degli anni di piombo. La cupezza dell’era brezneviana, l’inamovibilità del potere democristiano, l’inutile agitarsi del partito comunista e dei sindacati, la presa di coscienza che ormai – volenti o nolenti – si faceva parte di un sistema, ci avevano risvegliati dal sogno e fatto tramontare il sol dell’avvenir. Al loro posto dalle tenebre apparvero le P38 e le bombe nelle stazioni. Cosa era cambiato da quando volavamo nel blu? Non molto, anzi molte cose erano addirittura migliorate. Migliori erano le condizioni di vita, i redditi, l’istruzione e non si sognava più la Vespa ma la Fiat 127. Ad essere cambiata era però l’aspettativa per il futuro. Eravamo diventati pessimisti.
16 aprile 1970, Genova. Omicidio di Alessandro Floris da parte dei Gruppi di Azione Partigiana.
Partiamo dunque da questo amarcord per tentare di comprendere in che mondo ci stiamo muovendo oggi. Le condizioni al contorno sono note: due anni di pandemia planetaria e nessuna certezza di esserne usciti; una guerra locale ma dalle ripercussioni globali; cambiamenti climatici in apparenza inarrestabili; movimenti migratori di dimensioni bibliche; un sistema sempre meno economico e sempre più speculativo; diseguaglianze sociali; collasso del welfare state; sfiducia nella democrazia e altre piaghe formano lo sfondo contro il quale ci muoviamo.
Siamo dunque sicuri che questo sia davvero il peggior momento attraversato dal pianeta negli ultimi cento anni? Sembra che d’improvviso ci siamo tutti dimenticati di aver superato due conflitti mondiali e un’epidemia di influenza che insieme hanno fatto più di cento milioni di morti.
La fine del secolo breve e il collasso delle idealità e delle ideologie hanno lasciato in piedi il Pessimismo e l’Ottimismo; ultime ideologie praticabili; gli ultimi grandi racconti per interpretare la realtà e i suoi accadimenti.
Il fondamento di entrambi è fragile, a volte banale, tutt’altro che teoretico; di solito caratteriale, anzi peggio, umorale. Ottimismo e Pessimismo non sono in realtà visioni del mondo ma stati mentali di chi lo guarda.
Nell’epoca del bipolarismo umorale la sintesi gramsciana di pessimismo della ragione contrapposto all’ottimismo della volontà, dice poco. Tuttavia la riflessione su come questi due sentimenti siano in grado di modificare l’agire non solo degli individui ma di stati e sistemi di stati non è affatto banale.
“Il mondo all’inizio del ventunesimo secolo – scriveva nel 2006 il politologo americano Joseph Nye – è uno strano cocktail di continuità e cambiamento. Alcuni aspetti della politica internazionale non sono cambiati da Tucidide“. Si parla quindi di potere, delle sue caratteristiche e del modo di esercitarlo.
Joseph Nye , inventore della definizione di soft-power.
In generale la gente crede che in un paese il potere risieda nella sua capacità di costringere qualcun altro a fare ciò che si vuole; con le buone o con le cattive. Qualcun altro, più esperto, lo associa alla capacità militare o alla forza economica. Entrambe le osservazioni sono senz’altro vere, ma risultano incomplete. E’ infatti necessario introdurre almeno un ulteriore fattore: le aspettative con cui una potenza guarda al futuro e quanto i suoi leader credono o meno in un destino positivo.
Se i leader hanno una visione pessimistica del futuro saranno infatti portati a correre maggiori rischi nel presente per arrestare il possibile declino. Al contrario una leadership ottimista sarà maggiormente disposta a una sorta di “pazienza strategica” che si ritiene porterà i suoi buoni frutti nei giorni e negli anni a venire. Si parla in altri termini di soft-power.
Il termine soft power è stato coniato per la prima volta sul finire degli anni ’80 del secolo ancora da Joseph Nye. Per soft power Nye intendevala capacità di un governo di avere successo in ambito internazionale tramite l’uso di strumenti immateriali. Una modalità quindi contrapposta all’utilizzo della forza o della pressione altrimenti detta hard-power.
Sempre secondo Nye, il potere di uno Stato consiste nella “capacità…di persuadere gli altri a fare ciò che vuole senza forza o coercizione”. Ma non solo, il soft power è anche “la capacità di plasmare i propri atteggiamenti e preferenze a lungo termine con l’aiuto delle sue società, fondazioni, università, chiese e altre istituzioni della società civile”. Un Paese può quindi mantenere o accrescere il proprio potere non solo e non sempre con le corazzate e le portaerei, ma anche diffondendo la propria cultura, i propri ideali e i propri valori. A patto di avere molto tempo.
L’impero americano e la sfida cinese da “Limes, rivista italiana di geopolitica”
Alcune forme di potere si caratterizzano infatti anche rispetto al tempo. E’ questo il caso del potere militare o della pressioneeconomico-commerciale che si esercitano nella dimensione del “qui e adesso”. Hard power e il soft-power hanno quindi caratteristiche profondamente diverse. Il primo agisce nell’immediato, alla ricerca di risultati rapidi e risolutivi basandosi sulla coercizione e sulla forza. Una potenza che decida di conservare o ampliare il proprio potere attraverso l’hard power trarrà la sua forza dalla capacità di incutere timore e di minacciare i sui avversari di sventure future. I suoi strumenti saranno il potere militare, la minaccia, la pressione economico-commerciale. Al contrario una potenza che privilegi una strategia di soft power si muove su una linea temporale molto più estesa. Essa punta a creare un modello, un’immagine che sia accattivante e attrattiva per chi sta intorno. Essa sceglie di agire con altri genere di potere, quali quello culturale o sociale, con l’innovazione tecnologica; nel campo dei valori condivisi, tutti elementi che producono i loro effetti nel lungo periodo.
Una scena da “Full Metal Jacket”.
“Noi siamo qui per aiutare i vietnamiti, perché dentro ogni muso giallo c’è uno che sogna di diventare americano.” tuonava nel 1987 il colonnello Poge in Full Metal Jacket, riassumendo così involontariamente l’essenza stessa del soft power: fornire non solo un sogno, ma anche i mezzi e la via per raggiungerlo.
A questo punto verrebbe da chiedersi perché mai ci si dovrebbe votare ad esercitare una forma aggressiva e costosa di potere quando si potrebbero raggiungere obiettivi analoghi se non migliori con un approccio molto più inclusivo e tranquillo. La risposta sta nel tempo necessario a conseguirli. E’ infatti bene sottolineare ancora che l’hard-power ha bisogno tutto sommato di mezzi limitati e di un tempo breve per imporsi. Il soft-power necessita invece di tempi estremamente dilatati, di complesse architetture politiche, finanziare, sociali e culturali in grado di attualizzarsi al continuo mutare degli eventi.
Volendo indicare due esempi noti a tutti è facile indicare nella Russia di Putin il paradigma della potenza che ha scelto l’hard-power, mentre sul lato opposto si potrebbe pensare agli Stati Uniti che dalla fine della prima guerra mondiale hanno tentato, con periodici svarioni, di creare attorno a sé l’alone della potenza gentile, che combatte per nobili cause e fornisce al resto del mondo il modello della società libera, prospera e democratica in cui ogni uomo vorrebbe vivere, proprio come urlava il colonnello nel film di Kubrick.
Quando ci si riferisce a modelli di potere è tuttavia necessario rammentare che si è di fronte a un simulacro enormemente lontano da categorie come la realtà o la verità. Per questo pensare alla Russia come all’Impero del Male è solo propaganda così come quando si guarda agli USA come al Grande Satana. Carota o bastone non sono altro che maniere diverse di esercitare lo stesso potere che la dimensione geografica, la potenza economica, la forza militare e la demografia hanno conferito ad alcuni Stati e non ad altri.
La portaerei statunitense USN – Henry Truman
Chiariti alcuni concetti su cosa si intende per hard o soft-power è tempo di guardare come le classi dirigenti propendano per l’uno o per l’altro non solo in funzione delle risorse materiali e delle capacità oggettive di cui dispongono, ma anche in funzione delle loro aspettative per il futuro.
Leadership pessimiste saranno tentate di agire nel presente per ottenere rapidi risultati in quanto ritengono, o anche solo temono, di non aver abbastanza tempo per conseguire qualche vantaggio nel futuro. Potrebbero essere definiti come coloro i quali preferiscono l’uovo oggi. Sono loro che preferiscono ricorrere alle cosiddette “capacità cinetiche” quelle cioè in grado di modificare la situazione in campo in tempi rapidi. Tra di esse è naturale pensare in primo luogo alla potenza militare, alla capacità di proiezione di consistenti forze da combattimento in teatri lontani e alla capacità di sostenerle per tempi consistenti. Ma anche alla capacità finanziaria ed economica, alla struttura produttiva o alla sua capacità di penetrazione dei mercati.
Anche la tutela del brevetti, la falsificazione di massa, il dumping, le sanzioni economiche ed altro possono essere strumento di un potere che preferisce navigare a vista piuttosto che avventurarsi in strategie di lungo respiro. Questo non vuol dire che una leadership che eserciti preminentemente l’hard-power, non abbia una visione strategica a lungo termine, ma solo che non annette ad essa la stessa importanza che invece vi riservano le potenze che confidano nella gallina di domani.
I governi con positive aspettative per il futuro si muovono infatti in direzione opposta. Essi hanno fiducia che il loro ascendente nell’ambito della comunità internazionale seguirà un trend positivo per lungo, lunghissimo tempo. Ecco perché sono disposti ad investire tempo e ingenti risorse nella governance globale, nella diplomazia culturale, nella cura e nel sostegno ad alleanze politico-militari di lungo periodo, nelle partnership con potenze minori, nel progresso tecnologico e così via.
Chi, possedendo una visione ottimistica del futuro, ha puntato sugli strumenti del soft-power è in grado di dare del concetto di potere una definizione molto più ampia ed articolata di quanto sia in grado di fare chi ha scelto la via delle armi e della pressione.
La volontà di presentarsi al mondo come modello impone infatti di battere strade diversissime e spesso sconosciute, ciascuna delle quali porta a una definizione particolare del potere. Come definire, ad esempio, la capacità di mobilitare milioni di uomini in virtù di una fede religiosa? E come giudicare la possibilità di indirizzare intere società verso modelli di consumo, ideologie o semplicemente mode? In sintesi quanto è potente colui che è in grado di rendersi attrattivo per altri? In questo contesto la frase di Stalin che chiedeva quante fossero le divisioni del papa risulta oggi del tutto superata oppure, prendendo a prestito la definizione del sociologo Steven Lukes “ più ampia è la visione che si ha del potere, maggiore è la capacità di individuarne le diverse forme nel mondo”.
Detto questo viene da chiedersi cosa succede alle grande potenze quando queste hanno una visione pessimista o ottimista del futuro? E ancora più interessante è domandarsi cosa può accadere quando tutte e contemporaneamente condividono la stessa visione?
Se si guarda al passato si scopre che quando le leadership di grandi potenze hanno condiviso una positiva visione del futuro si sono avute numerose e persino frequenti aree di confronto, ma pochissime guerre.
Al contrario un mondo offuscato dal pessimismo spinge ad enfatizzare le possibilità offerte dalla forza militare impiegata anche in misura preventiva. Definizioni come la “guerra preventiva” della dottrina Bush o la putiniana“operazione militare speciale” suonano perciò familiari in questo contesto in cui il ricorso alle armi è di gran lunga più probabile che nell’altro.
Di per sé il pessimismo non accresce né crea i punti di contrasto o le dispute internazionali, ma può modificare il modo e i tempi con cui affrontarli. La questione di Taiwan; il controllo degli stretti; il problema palestinese; il senso di accerchiamento della Russia; il problema siriano; il confronto Iran-Arabia Saudita o il desiderio di aprirsi al Pacifico della Cina sono elementi di crisi preesistenti a qualunque sentimento. Tuttavia quando i principali attori che vi intervengono si muovono in un’atmosfera cupa e fredda gli strumenti scelti per governarli o risolverli possono essere davvero pericolosi. Le parole di papa Francesco che meno di un mese fa ammoniva che si era in presenza della “terza guerra mondiale a pezzi”, sembrano confermarlo.
C’è solo il pessimismo o l’ottimismo a governare le scelte delle potenze? Certamente no. Determinante è anche quanto una potenza sia consolidata oppure sia in una fase emergente. Una potenza consolidata come ad esempio gli Stati Uniti o nel passato la Gran Bretagna, guarda al futuro in modo simile rispetto ad una potenza nascente quale possono essere ad esempio la Cina di oggi o la Francia di ieri.
Entrambe possono condividere la percezione che i giorni a venire saranno carichi di meraviglie; tuttavia, una potenza ormai consolidata può essere tentata dall’attingere a tutti gli strumenti del potere, inclusa la forza militare, mentre uno stato che si sta affacciando nel ristretto ambito delle potenze preferirà mantenere un profilo più basso, evitando di suscitare sospetti o sensazioni di insicurezza nelle potenze consolidate che comprometterebbero il proprio cammino.
Una visione ottimista può anche spingere una potenza già consolidata a considerare transitorie e gestibili le eventuali crisi che fosse chiamata ad affrontare. Ciò non significa che le potenze egemoni che esercitano il soft-power non agiscano per contenere o mitigare gli effetti di una politica revisionista da parte di altre potenze concorrenti; Sia le potenze consolidate sia quelle emergenti condividono dunque l’interesse a evitare ogni confronto militare nel medio-lungo periodo.
Cosa succede invece quando le principali potenze hanno un approccio pessimistico al futuro? E’ facile dire che ci si troverà in un mondo di gran lunga più pericoloso. In questo contesto tutti guardano innanzi tutto al potere militare sia proprio sia in relazione a quello posseduto dalle potenze se non ancora nemiche almeno avversarie. In questa prospettiva anche una potenza nascente potrebbe considerare vantaggioso il ricorso alla forza per sfruttare quella che è percepita come una limitata finestra di opportunità.
Un esempio di tale dinamica è rintracciabile negli anni che precedettero la prima guerra mondiale. All’inizio del secolo la potenza egemone -l’impero britannico – aveva tutto l’interesse a mantenere una situazione di pace e di equilibrio generale affidandosi non solo alla sua rete commerciale e finanziaria, ma anche alla potenza della flotta oceanica. Negli stessi anni un’altra potenza, questa volta terrestre – la Russia zarista –reduce da una sonora sconfitta militare in estremo oriente e già preda dei primi fermenti rivoluzionari – si era decisa a iniziare una rapida svolta modernizzatrice a partire dall’apparato militare e in particolare dalla flotta oceanica che così male aveva figurato. Il terzo attore di questo precario equilibrio di potenze – la Germania guglielmina – stava invece velocemente scalando i gradini di potenza mondiale e puntava a divenire quella egemone nell’Europa continentale. Già sul finire dell’800 Berlino aveva raggiunto il primato industriale ed era una primaria potenza militare terrestre, tuttavia le mancava la disponibilità di una flotta in grado di competere con quella britannica e avvertiva già chiara la minaccia di quella russa in divenire. Pressata a ovest dallo strapotere britannico sui mari e ad est dal riarmo russo la Germania ritenne allora di essere sul punto di perdere la sua chance. In altri termini, assecondando una visione pessimistica del futuro, Berlino interpretò la situazione come la chiusura della sua finestra di opportunità. Ecco quindi che l’opzione militare, in un’atmosfera di generico pessimismo per il futuro, venne considerata una strada praticabile e forse anche vincente. Il pessimismo e la fretta della Germania e il suo conseguente veloce riarmo coinvolsero tutte le altre potenze europee che seguirono ciò che è comunemente noto come “paradosso della sicurezza”. Il resto è cosa nota.
Alla luce di quanto detto come dovremmo interpretare il periodo che stiamo vivendo? Durante il primo ventennio di questo secolo la Cina, nuova potenza emergente, si è comportata come una potenza ottimista. Il prodotto interno lordo saliva in Cina più di qualunque altro paese al mondo, l’economia era in piena espansione e dopo l’iniziale fuoco di Tienanmen nel 1989 non c’erano più significativi movimenti di opposizione al Partito e soprattutto, nessuna tra le altre potenze aveva percepito la Cina come un pericolo, anzi tutt’altro.
Tutto ciò aveva portato la leadership cinese a mantenere una visione ottimista del futuro e di conseguenza a potenziare tutti gli strumenti del suo soft-power. Sono questi gli anni in cui la Cina si proponeva al mondo anche come potenza culturale e come modello per lo sviluppo ai paesi del cosiddetto “terzo mondo”. Prestiti, apertura di scuole, realizzazione di importanti infrastrutture, aperture di reti commerciali in Asia, Africa e persino in Europa hanno rappresentato gli strumenti di questa Cina dal volto umano. L’aspetto della potenza militare, se pur non certo trascurato, veniva posto in secondo piano dai dirigenti di Pechino, soprattutto per non indispettire o meglio insospettire la grande talassocrazia planetaria degli Stati Uniti.
Tuttavia, mentre il leader cinese Xi Jinping consolidava la sua presa sul potere l’ottimismo di Pechino ha iniziato a declinare e non senza ragione. La Cina ha avuto tassi di natalità sotto il livello di sostituzione per 30 anni e i recenti sforzi del governo per aumentarli si sono dimostrati vani. Ecco quindi il primo timore: la Cina potrebbe invecchiare prima di diventare ricca. Allo stesso tempo, le politiche anti-Covid, protratte per oltre due anni, hanno fortemente irritato l’opinione pubblica interna oltre a rallentare fin quasi a bloccare la filiera mondiale delle merci.
Anche le prospettive economiche negli ultimi anni sono state riviste al ribasso. Sebbene tra il 2000 e il 2010 la crescita del Gigante asiatico sia stata strabiliante, il suo rallentamento negli ultimi dieci anni è stato altrettanto forte. La crescita del PIL cinese è scesa da un picco del 14% nel 2007 a poco più del 2% nel 2020. Anche in termini di produttività, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008, la Cina sta rallentando. Il rapporto debito-PIL è quasi triplo a quello degli Stati Uniti. La futura crescita economica del paese sembra dunque assai meno promettente di quanto appariva solo vent’anni fa.
Anche le riforme introdotte da Xi Jinping hanno avuto scarso successo. Nello specifico queste avevano riguardato il problema dell’inquinamento delle aree urbane e industriali; l’altissimo debito pubblico degli enti locali; la dipendenza della crescita economica dalla confisca dei terreni privati e comunitari da parte dello stato e l’allentamento della politica del “figlio unico”. Da più parti quindi si inizia a pensare che alla Cina rimangono ancora pochi anni prima che la crescita si esaurisca.
Se la Cina non è al suo massimo, anche gli Stati Uniti non stanno vivendo il loro momento migliore. Entrambi i paesi stanno invecchiando. L’immigrazione negli Stati Uniti,- tradizionale fonte di forza demografica- si sta prosciugando. Secondo lo US Census Bureau, negli Stati Uniti ci sono attualmente due milioni in meno di immigrati in età lavorativa rispetto agli anni precedenti il 2020. Ci sono poi da considerare gli effetti sistemici dell’epidemia di Covid, le turbolenze finanziarie, la contrazione della catena degli approvvigionamenti mondiali. Non ultimo la polarizzazione della partecipazione alla vita pubblica che insieme alla disaffezione di larghe parti della popolazione americana alla politica fanno temere qualcuno per lo stesso futuro dell’Unione. Tutto questo spinge gli USA a vivere o a ritenere di vivere ormai fuori dal “secolo americano” trionfalmente annunciato all’indomani della fine della guerra fredda. Sia l’attuale presidenza Biden sia quella precedente di Trump si sono mosse in questo clima di pessimismo. Il trumpiano “Make America great again”sta lì a testimoniare come oltre Atlantico forse non ci si senta più così grandi.
E la Russia? Nonostante tutti i suoi discorsi sul ripristino della grandezza russa, il presidente russo Vladimir Putin ha una visione del mondo pessimista, e questo spiega almeno in parte la sua decisione di invadere l’Ucraina nel febbraio dello scorso anno. In verità c’è da considerare che nel corso della sua storia plurisecolare la Russia non ha mai perseguito alcuna strategia di soft–power, preferendo a qualsiasi accattivante politica di lungo respiro il brutale utilizzo della forza per risolvere le crisi che man mano si sono affacciate nel suo spazio geopolitico e riaffermare il suo essere grande potenza. Autocrazia, potere militare e minaccia nucleare sono stati gli strumenti dell’hard–power prima sovietico e ora putiniano.
Gli interventi russi del 2014 in Crimea e nell’Ucraina orientale sono dunque perfettamente congruenti all’approccio che abbiamo definito dell’uovo oggi. Invece di puntare su una seduttiva politica di inclusione dei paesi dello spazio ex-sovietico, la Federazione russa ha preferito continuare a proporsi come l’orso in grado di sbranare chiunque in qualsiasi momento. Per tutta risposta, a fronte delle sempre più pressanti e perentorie indicazioni di Mosca l’Ucraina si è mossa rafforzando le proprie capacità militari e avvicinandosi alla NATO e all’Unione europea. Nella sua visione pessimistica del medio-lungo periodo Putin ha perciò pensato di dover agire rapidamente e con la forza, prima che Kiev sfuggisse completamente alla sua sfera di influenza.
Il sorprendente corso della guerra ha probabilmente alimentato ulteriormente il pessimismo di Putin e ha incoraggiato anche il pessimismo di Pechino. I funzionari cinesi probabilmente si aspettavano una risposta occidentale frammentaria e inefficace alla guerra della Russia. Non c’è da stupirsi che Xi Jimping abbia accettato una “amicizia senza limiti” con Putin agli inizi dell’invasione.
Dopo più di un anno di guerra, di fronte ad uno stallo militare, alla risoluta reazione occidentale e alla compromissione della sua rete commerciale, la posizione della Cina sembra molto più vulnerabile. Il sostegno di Pechino alla Russia ha lasciato i suoi vicini asiatici più diffidenti verso le intenzioni cinesi. È impossibile per i funzionari cinesi guardare alla difficoltà che la Russia sta avendo nel sottomettere il suo vicino senza considerare i paralleli con Taiwan.
Se Xi Jimping, assecondando una visione pessimista del futuro, vedrà che la sua finestra di opportunità si sta chiudendo per l’unificazione forzata di Taiwan alla Cina popolare, potrebbe essere tentato di agire preventivamente. Le frequenti esercitazioni cinesi nello stretto di Formosa e attorno all’isola non fanno che alimentare i sospetti in tal senso.
In conclusione possiamo affermare che si stia vivendo una fase in cui i maggiori attori mondiali: Cina, USA e Russia – hanno una visione pessimista del proprio futuro. Al termine di questo ragionamento ci si sarà resi conto come l’Unione europea non sia stata neppure citata e con ragione. In tempi che si ritengono cupi, con una grossa guerra in corso e con l’aumento della diffidenza reciproca l’essere solo un grande mercato e condividere una moneta non basta. Negli ultimi trent’anni l’Europa non solo non è stata in grado di sostenere un hard–power credibile ma neppure di perseguire un soft–power degno di questo nome che la facesse apprezzare quale interlocutore internazionale. In definitiva, per avere potere e poterlo esercitare – al di là dell’essere ottimisti o pessimisti – si deve in primo luogo esistere.
Gestisci Consenso Cookie
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.