Solo un anno fa in pochi avrebbero scommesso non solo sull’incredibile resistenza dell’esercito e dell’intero popolo ucraino, ma addirittura sulla loro capacità di reazione. L’operazione militare speciale di Putin, nata con l’intento di sovvertire in pochi giorni il governo ucraino, sebbene sottodimensionata agli scopi e ai tempi d’una vera invasione, aveva comunque colto l’esercito ucraino non al meglio delle proprie capacità operative.
Problemi di mobilitazione di ingenti numeri di militari; scarsa disponibilità di armamento e di equipaggiamenti e difetti nell’addestramento del personale sembravano segnare il destino di Kiev e invece, giorno dopo giorno, i fatti hanno provveduto a smentire il pronostico. Tuttavia, in guerra non esistono miracoli e neppure quello compiuto dall’esercito azzurro-oro lo è stato. Si è trattato al contrario di un sorprendente e sapiente uso delle risorse a disposizione; pianificate, coordinate e impiegate nel migliore dei modi. Il prezzo da pagare è stato comunque alto, molto alto; sia in termini di vite umane sia di materiali.Focalizziamo l’attenzione su quest’ultimo aspetto e in particolare sugli armamenti pesanti; vale a dire i carri armati, i veicoli per il trasporto e il combattimento per la fanteria e i pezzi d’artiglieria. All’inizio del conflitto per l’esercito ucraino, come per quello russo, tutto questo usciva dai depositi e dagli arsenali ex-sovietici.
un T 64 di produzione ex-sovietica
Si parla dei carri armati T64 e T72, dei veicoli BMP 1 e 2, dei BTR 90 e via così. Materiali a bassa tecnologia, rustici, economici, pensati e costruiti in previsione di una possibile guerra ad alta intensità nel centro dell’Europa contro il nemico di sempre: la NATO.
Un BMP 2 – veicolo trasporto e combattimento per fanteria di produzione ex-sovietica
Gli eventi che seguirono la caduta dell’URSS e del muro di Berlino sono noti a tutti. Nulla o quasi di quel mondo è sopravvissuto, a meno dei mezzi e delle armi pensate per combattere. Qui è bene porre attenzione a una prima differenza tra l’esercito della Federazione russa e quello di Kiev. All’inizio della guerra, così come in gran parte anche ai giorni d’oggi, Mosca poteva contare su uno sterminato arsenale di mezzi e munizioni accantonati in previsione di un conflitto che, per fortuna non ci fu. E’ da quei parchi perduti oltre gli Urali che sono arrivati i T64, i BRDM, i vecchi camion ZIL e i BMP che avremmo visto in gran numero incendiati e distrutti ai bordi delle fangose strade ucraine. Pur se costituito sulle stesse macchine, il parco veicoli da combattimento dell’esercito ucraino non poteva certo disporre di questo pozzo senza fondo di scorte. E non solo. Affascinati dal potere distruttivo dei javelin e dei droni anticarro switchblade ci siamo infatti dimenticati della terribile usura imposta dal combattimento a tutti i veicoli, russi o ucraini che fossero.
Obice semovente 2S1 Gvodzika di produzione russa
E’ infatti indubitabile come nei mesi di guerra Mosca abbia sofferto terribili perdite anche in termini di materiali, ma mentre l’esercito russo poteva attingere ad un magazzino quasi infinito, Kiev sapeva che ogni singolo carro perso, ogni blindato andato in fiamme, ogni obice colpito dalla controbatteria difficilmente sarebbe stato sostituito. Questa semplice costatazione a Mosca si è trasformata in una precisa strategia di guerra: in mancanza di significativi avanzamenti sul terreno sarebbe stato necessario infliggere a Kiev perdite materiali tali da compromettere la volontà e la capacità di sostegno e di alimentazione che nel frattempo il campo occidentale era stato in grado di sviluppare. Insomma,obbligare Kiev a bruciare molta più legna di quanto riusciva a tagliare.
La domanda non posta era infatti fino a quando l’Occidente sarebbe stato in grado di alimentare lo sforzo ucraino? Quali costi finanziari e di materiali sarebbe stato disposto a pagare? Sulla risposta a queste due domande Mosca aveva basato gran parte della sua strategia di guerra; vale a dire tirarla tanto per le lunghe fino al punto di costringere l’occidente a “staccare la spina” al suo alleato sotto attacco.In questa prospettiva per Mosca ogni carro consumato era un carro guadagnato.
Da parte occidentale la risposta inziale , in gran parte inattesa, era stata di “sollecitare” i nuovi membri della NATO, un tempo appartenenti al patto di Varsavia, a cedere all’Ucraina gran parte del loro parco veicoli di fabbricazione ex-sovietica. Paesi come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, tutti i paesi baltici ma anche Bulgaria, Romania e persino una recalcitrante Ungheria avevano quindi provveduto a rimpinguare l’arsenale di Kiev con i loro vecchi mezzi dalla stella rossa. Non era però bastato. Così si era deciso di acquistarli in giro per il mondo ad esempio da India, Marocco, paesi arabi vari e persino da Cipro.
Tuttavia le necessità di approvigionamento imposte da questa guerra non erano e non sono tutt’ora sufficienti a coprire le esigenze quotidiane di consumo e a questo punto si arriva alla questione dei carri occidentali. Dopo un anno di guerra trovare carri, pezzi di artiglieria, veicoli da trasporto di derivazione ex-sovietica è diventato molto, molto difficile. L’unico posto dove reperire altri carri armati erano quindi gli arsenali e i depositi dei paesi occidentali, in primo luogo quelli americani. Qui però la faccenda si complica.
carro armato britannico Challenger
Già all’inizio dell’estate era apparso chiaro che continuare a supportare Kiev avrebbe significato attingere alle dotazioni e alle scorte degli eserciti dell’Alleanza. Non sarebbe stata dunque la NATO a consegnare alcunché, ma ogni singolo paese avrebbe dovuto decidere se e cosa dare a Kiev e in che tempi. La prospettiva di dover cedere parte dei propri costosissimi e rari assetti da combattimento ha scatenato all’interno di ogni paese una forte e motivata discussione. Non si trattava infatti solo di una scelta di tipo etico sulla giustizia o meno di fornire armi pesanti con cui proseguire la guerra, ma anche valutare che impatto una simile decisione avrebbe potuto avere non tanto sui rapporti presenti con Mosca, già abbastanza compromessi, ma soprattutto per il futuro. Infine si trattava di valuitare con attenzione l’effetto che la fornitura di carri armati avrebbe sortito sull’opinione pubblica di ognuno, vale a dire sull’elettorato.
Accanto a queste che possono essere considerate comuni preoccupazioni, per alcuni paesi in particolare valgono anche considerazioni di politica industriale. E’ questo il caso della Germania dove la Rheinmetall produce il celebre Leopard 2. A livello mondiale questo carro è il naturale competitor dell’americano Abrams, del francese Leclerc e del britannico Challenger ed è un leader nel mercato mondiale.
carro Leopard 2 dell’esercito tedesco
A Berlino qualcuno ha pensato che consegnare la flotta di Leopard 2 all’Ucraina avrebbe anche potuto significare aprire un buco presto forse non più riempito da altri Leopard 2 ma, perché no, da Abrams statunitensi o addirittura, da K2 Black Panther coreani. Nel momento in cui Polonia, Spagna e gli altri 23 paesi che sono attualmente equipaggiati con Leopard 2 avessero ceduto i loro carri all’Ucraina che garanzia avrebbe mai avuto la Germania di mantenere la propria quota sul mercato dei carri? Il dubbio ha imposto quindi prudenza nel liberare questi paesi dai vincoli contrattuali che li legano a Berlino e alla Rheinmetall.
Esiste poi il problema di quale versione consegnare. Tra un Leopard 2 A1 e una versione A6 corrono infatti enormi differenze tecnologiche che equivalgono a enormi segreti industriali e altrettanti enormi problemi di gestione logistica. La prospettiva del retro-engineering, vale a dire della possibilità che una volta catturato dai russi uno di questi carri sarebbe stato smontato e copiato bullone per bullone era ed è più che concreta e anche questo aspetto impone prudenza.
Infine, c’è la possibilità che una volta schierati nelle pianure ucraine i Leopard 2 possano performare male, vale a dire fare una brutta figura. Che impatto avrebbe infatti sul mercato mondiale l’eventuale distruzione di questi costosissimi carri da parte di uno scalcinato sistema controcarro russo? Perché – potrebbero chiedersi molti governi – pagare così tanto per un carro che, dopo tutto, va a fuoco come qualsiasi altro? Era già successo in Siria quando una quindicina di Leopard 2 dell’esercito turco erano andati in fiamme esattamente come tutti gli altri.
Se esuliamo dall’ambito tecnico e si entra in quello politico viene infine da chiedersi se l’occidente voglia davvero dotare Kiev di una forza in grado di sovvertire le sorti della guerra. Finora sia Biden, sia gli altri leader occidentali hanno giustamente sostenuto il sacrosanto diritto di Kiev a difendersi dall’aggressore. Tuttavia, difendersi è una cosa e vincere un’altra. Si è disposti a sostenere un’offensiva ucraina ad esempio contro la Crimea? E come comportarsi se una puntata offensiva di qualche unità corazzata ucraina decidesse di attraversare il confine russo?
Per evitare ogni rischio è bastato rispondere a Zelensky, il quale chiedeva con urgenza 7-800 carri per vincere, che gli sarebbero stati consegnati circa 200 carri per difendersi, Quando? Con comodo a partire dal maggio di quest’anno per concludere le consegne entro il prossimo anno. Non dimentichiamo infatti che anche quando sostiene valori universali, come il diritto di un popolo di difendersi da un’aggressione, la politica rimane il regno del possibile e del conveniente.
Nel suo racconto “Isbe e steppe”, l’allora inviato di guerra del Corriere della Sera, Lamberti Sorrentino, così descriveva i partigiani ucraini operanti nelle retrovie del fronte nel ‘43.
«Confuso, sinistro, cieco, intelligente, il partigiano porta con sé la realtà, e spera di poter divellere ostacoli, contrasti, barriere, limiti…Spesso ho pensato che costoro sparino soltanto perché un istinto più forte di qualunque paura ve li obbliga. Sbrindellati e convulsi, uccidono perché nel raggio delle loro armi non è giusto che viva nessun estraneo...“Esistiamo, vogliamo esistere esisteremo sempre, andatevene» .
Nel suo reportage si ritrova lo spirito del conflitto in atto tra Russia e Ucraina; la sua brutalità; la reazione del popolo ucraino e, forse, anche un’indicazione di come potrebbe andare a finire. Nell’attesa ripercorriamo quanto per molti, specie in Europa occidentale, appare essere una guerra incomprensibile e alle cui ragioni profonde abbiamo accennato nella prima parte di quest’articolo dedicato al primo anniversario del conflitto.
E’ tempo dunque di tornare sul campo.
il presidente della Federazione russa Vladymir Putin.
E’ ormai opinione comune che quello sofferto nelle pianure ucraine è un conflitto che nessuno voleva; almeno in queste proporzioni; ad iniziare da Putin e dalla ristretta cerchia dei suoi consiglieri. In quel circolo sembra che nessuno immaginasse le conseguenze a breve termine della decisione di risolvere per le spicceil problema della “Piccola Russia”; del suo desiderio di vera indipendenza e della sua pericolosa vicinanza alla NATO.
Una cerchia tanto ristretta quella di Putin da non coinvolgere una buona parte e della catena di comando militare che quella stessa decisione avrebbe dovuto presto implementare. L’idea era di dare una semplice e decisa spallata al gabinetto Zelensky per poi insediare a Kiev un nuovo governo più malleabile. Tutto qui.
Il presidente della Repubblica Ucraina, Volodymir Zelensky.
D’altra parte che preoccupazioni poteva mai dare all’impero russo un paese che si trovava sull’orlo della bancarotta, devastato ad ogni livello dalla corruzione e al cui vertice si trovava un ex-attore, sostenuto da avidi oligarchi e protetto da bande di hooligans conditi in salsa pseudo-nazista. Tutto sarebbe filato liscio come l’olio.
E’ stato insomma il solito binomio di scommesse ed illusioni che anima ogni possibile guerra. La scommessa si riferiva al fatto che gli ucraini fossero talmente messi male da non aver neppure il tempo di alzare un dito. L’illusione invece era addirittura doppia. Da una lato a Mosca ci si illudeva che la maggior parte degli ucraini avrebbe accolto i carri armati con ghirlande di fiori. Non era forse vero che almeno la metà del paese, compreso il suo presidente-attore, erano di madre lingua russa? Questo, per estensione del concetto, significava che sarebbero stati certamente anche russofili. Dal canto loro anche i servizi di sicurezza della federazione sembra avessero confermato la positiva predisposizione di una larga parte della gente di Ucraina a un riavvicinamento alla Grande Russia. Da anni i loro agenti avevano infatti infiltrato i gangli delle istituzioni politico-amministrative di Kiev, nonché una buona parte dell’esercito. C’era dunque da fidarsi quando nei rapporti confermavano che un’eventuale “spedizione militare” avrebbe incontrato poco più di un’opposizione formale. La seconda illusione riguardava invece la reazione del resto del mondo. Dopo il repentino e disordinato abbandono dell’Afghanistan da parte americana, Putin sembrava più che convinto che nessuno avrebbe alzato un solo dito per il suo “pronunciamento”. Era già successo per la Crimea e ancor prima per la Georgia; perché preoccuparsi?
Su questa scommessa e su una duplice illusione Mosca aveva quindi deciso che era tempo di agire. La data è nota a tutti: L’alba del 24 febbraio 2022.
Un veicolo ruotato BTR 70 dell’esercito russo nei primi giorni dell’invasione.
A quella che veniva definita come «operazione militare speciale» erano stati assegnati si e no 200.000 uomini, compresi alcune migliaia appartenenti alla Rosgvardija, la Guardia Nazionale della Federazione Russa, alle dirette dipendenze di Putin. Duecentomila uomini per ribaltare un paese grande due volte l’Italia con oltre trentacinque milioni di abitanti. Solo osservando i numeri si capisce come quella forza fosse stata pensata più per compiti di sovversione e poi di concorso in ordine pubblico che per condurre un’invasione militare.
Una indiretta conferma si avrà già nei primi giorni dell’invasione quando dalle parti di Irpin, all’interno di camion mezzo bruciati, non vennero rinvenute munizioni e armi, ma centinaia di equipaggiamenti anti-sommossa per polizia, segno che i russi si aspettavano manifestazioni, non cannonate. Analoga illusione aveva animato il comandante del settore d’invasione di nord-est, quello incaricato di marciare su Kharkiv, la più russa delle città ucraine. «Ci attendevamo di essere ricevuti con pane e sale» riferirà poi l’ufficiale «e invece ci hanno sparato addosso».
A onor del vero a non aver capito l’aria che tirava non c’erano solo i russi. Anche gli americani, che come abbiamo visto da anni sostenevano e addestravano sia l’elite politica ucraina sia il suo esercito, erano più che convinti che in caso di un’invasione russa la dirigenza ucraina si sarebbe defilata in poco tempo e il paese sarebbe in gran parte finito sotto il controllo di Mosca.
Un Antonov ucraino An-225 Mryia distrutto all’interno di un hangar dell’aeroporto di Hostomel – Kiev.
Quando all’alba del 24 febbraio, gli aviotrasportati della Vozdušno-Desantnye Vojska (VDV) di Putin tentarono di occupare l’aeroporto di Hostomel, dieci chilometri a nord di Kiev, trovarono ad aspettarli non il personale dello scalo ma i reparti della 4^ brigata di reazione rapida ucraina. E vennero fatti a pezzi.
Nelle ore in cui la frontiera russo-ucraina veniva contemporaneamente forzata lungo cinque direttrici, a Kiev il giovane presidente Zelensky sorprese tutti rifiutando il passaggio per Leopoli offerto a lui e al suo governo dagli americani. «Datemi armi, non un taxi» sembra fosse stata l’inevitabile frase storica. Per restare invece ai fatti in quelle ore il Presidente Zelensky, il suo ministro della difesa, Oleksij Reznikov e Denys Monastirsky, quarantaduenne ministro dell’interno decisero di rimanere al proprio posto. Non solo. Insieme all’alta dirigenza militare iniziarono a emanare ordini per avviare la resistenza. Tale decisione sarebbe stata forse la più importante e gravida di conseguenza di quella che ancora qualcuno si ostinava ad immaginare come una “blitzkrieg” russa.
Addestramento di base di milizie popolari ucraine nei primi giorni dell’invasione. notare la sagome in legno di fucili AK 74.
In attesa che il grosso dell’esercito fosse in grado di reagire sarebbe stato infatti necessario condurre la difesa degli abitati, interrompere, anche solo per poco, le principali vie di comunicazione; fornire informazioni dettagliate e tempestive sulla dislocazione dei reparti russi e tutto quanto sarebbe potuto servire a rallentare l’avanzata delle colonne di Putin. Gran parte di questo rischioso lavoro fu affidata a cittadini comuni. Vennero distribuite armi, costituiti piccoli reparti ma soprattutto venne data speranza alla gente d’ucraina di poter resistere e forse anche di vincere.
Nel frattempo l’inattesa e tenace resistenza causava non pochi problemi ai russi. Simbolo di quei giorni fu la colonna di oltre sessanta chilometri bloccata lungo una statale a pochi chilometri da Kiev. Quello non fu opera della resistenza ucraina, né della logistica russa ma della deficitaria pianificazione degli itinerari da parte russa che pensò bene di infilare quattro brigate di fanteria in un’unica stradina. Cose che capitano.
foto aerea della colonna di oltre 60 km alle porte di Kiev.
Mentre oltre cinque milioni di profughi, in gran parte donne e bambini, varcavano le frontiere dell’Unione Europea in Ucraina si combatteva ovunque, chi con un fucile, chi su un carro armato e chi, semplicemente con un telefonino, riprendendo le colonne russe e segnalandole ai comandi. Ben presto fu chiaro ai soldati russi che nessuno li avrebbe accolto con “pane e sale”, tutt’altro.
Ogni uomo in bicicletta, ogni donna con una borsa della spesa, ogni vecchio seduto sull’uscio di casa poteva essere stato colui che aveva fornito le coordinate all’artiglieria ucraina o ai temibili droni turchi Bayraktar TB2. In molti casi, come a Bucha, il risultato fu una strage di civili. Bastava un telefonino o fermarsi al bordo strada ad osservare qualche mezzo con la “Z” per essere un nemico.
cadaveri di civili ucraini a Bucha, sobborgo di Kiev.
La paura come il coraggio sono contagiosi e la determinazione dimostrata dalla gente di Kiev, Irpin, Chernikiv, Sumi, Kharkiv o Mariupol convinsero i nuovi amici di Kiev, in primo luogo gli USA, che tanto valeva aiutare Zelensky nel suo tentativo apparentemente disperato di non essere inghiottito dall’orso russo.
Come ebbe a commentare l’ex ambasciatore americano Charles Freeman,la reazione ucraina all’invasione russa, dopo l’iniziale sorpresa, poteva rappresentare per Washington un’inattesa opportunità strategica; quella cioè di trascinare la Russia in un duro conflitto che ne avrebbe spento per lungo tempo ogni ambizione di tornare ad essere una grande potenza planetaria.
Dopo l’iniziale avvicinamento dei primi anni 2000, USA e Federazione russa si erano infatti man manoi allontanati fino a divenire apertamente avversari. Era solo il 2021 quando Biden definiva Putin un assassino e un macellaio e l’inquilino del Cremlino ricambiava carinamente Washington con accuse di neo-imperialismo, mollezza e di depravazione dei valori morali. In subordine quello che l’America sembrava temere era l’avvicinamento della Russia ad alcuni paesi europei, come Germania e Italia e ancor più quello alla Cina di Xi Jinping. Meglio quindi fiaccare quanto più possibile Mosca e consegnare a Pechino un alleato che avrebbe portato con sé più problemi che vantaggi.
Per tornare in ambito europeo occidentale c’era anche da sistemare la faccenda della Germania che sempre di più sembrava voler sviluppare una propria politica nei confronti della Federazione russa. La joint venture in tema di energia, rappresentata plasticamente dalla costruzione del gasdotto north stream 2 non era mai piaciuta a Washington. Lo stesso per le scelte operate nel settore energetico dall’Italia, legata a doppio filo al gas di Putin. Insomma una guerra che avesse compromesso Putin e il suo entourage capitava proprio a fagiolo.
Washington decise quindi di avviare una sorta di “piano marshall” militare a favore di Kiev esercitando contemporaneamente una forte pressione verso tutta la Unione Europea affinché si allineasse disciplinatamente alle nuove parole d’ordine. La spedizione di Putin era riuscita in pochi giorni a ricompattare l’alleanza atlantica che solo due anni prima il presidente francese Macron aveva definito: «in stato di morte celebrale», mentre per il presidente Trump: «era obsoleta e non più in grado di contrastare efficacemente le vere minacce poste dall’attuale scenario internazionale».
Anche l’Unione Europea, messa di fronte all’evidenza di essere poco più che un unione monetaria e una comunità di mercati, incapace perciò di una qualsiasi risposta politica, optò per una serie di sanzioni economiche e finanziarie che nell’intenzione dei promotori avrebbero in breve messo in ginocchio la Russia. Anche in questo caso si trattava di una scommessa e di un’illusione, ma questo aspetto esula dagli scopi di questo scritto. Basti però ricordare come le previsioni di allora avevano ipotizzato un crollo del 13% del PIL della Federazione russa, mentre oggi – fonte il Fondo Monetario Internazionale – siamo si e no al 2,8%. Anche l’industria bellica che sarebbe dovuta essere stata messa in ginocchio dal blocco delle importazioni viaggia invece verso la quasi completa riconversione alle esigenze della guerra. Grazie al contrabbando internazionale e alla naturale predisposizione russa a tenersi pronti alla guerra è stato dunque possibile alimentare quella che il poeta inglese Owen chiamava “la fame vorace dei cannoni”.
Stabilimento in Siberia per la produzione di veicoli cingolati per la fanteria tipo BMP e BMD.
Intanto sul terreno i primi mesi successivi all’invasione vedevano il fallimento dell’ipotesi golpista. A nord le colonne militari si erano arrestate a una decina di chilometri da Kiev, senza avere né l’intenzione, né la forza di entrare in città. A nord-est, lungo il confine tra Russia e Ucraina, le cose non andavano meglio. Sumi era sotto attacco, Chernochiv anche, e Kharkiv, la seconda città dell’Ucraina, completamente russofona, resisteva accanitamente. Insomma nei settori nord e nord-est le cose andavano male.
Qualche limitato successo era stato ottenuto in Donbas e soprattutto verso il Mar d’Azov dove Berdiansk e Mariupol erano in mano russa. L’unico vero successo di questa sgangherata campagna era stato fino ad allora la presa di Kherson, avvenuta quasi senza colpo ferire, anche grazie alla benevola complicità dei difensori ucraini i cui comandanti non s’erano certo troppo affaticati nel respingere gli invasori provenienti dalle Crimea. Il controllo di Kherson non era cosa di poco conto.
lI canale nord Crimea garantosce approvigionamento idrico alla Crimea settentrionale
Con la città in mano Putin poteva infatti garantirsi il controllo sul canale nord Crimea, l’arteria che dal Dnepr assicura il rifornimento di acqua alla Crimea settentrionale. Kherson sarebbe inoltre potuta diventare la piattaforma dalla quale lanciare la temuta offensiva contro Odessa. In questo schema di manovra rientrava pienamente anche la presa dell’Isola dei serpenti, uno scoglio disabitato alla foce del Danubio noto per custodire forse la tomba di Achille e per controllare gli accessi al porto di Odessa e a quello di Costanza. L’occupazione russa durò poco grazie ai continui bombardamenti missilistici ucraini.
Fotografia aerea dell’Isola dei Serpenti.
Gli stessi erano anche i giorni in cui a Mariupol si consumava il dramma della AZOVSTAL, l’immenso impianto siderurgico dove combattenti del reggimento Azov, fanti di marina e qualche altro volontario resistevano ad oltranza. Mariupol, porto di sbocco dell’intero Donbas, era ormai perduta ma la resistenza dell’acciaieria aveva un altissimo valore simbolico. Di fronte al mondo intero si dimostrava che l’Ucraina non si sarebbe arresa, costi quel che costi.
L’acciaieria AZOVSTAL di Mariupol.
Nella tarda primavera l’evidente fallimento dell’idea operativa di un attacco contemporaneo lungo cinque direttrici aveva indotto il comando russo a rivedere i piani. Nuova pianificazione e nuovi obiettivi per evitare a Putin di dover ammettere che il suo brillante piano era stato respinto dall’impatto con la realtà.
La Federazione russa scoprì allora che il vero obiettivo dell’intera operazione speciale non era affatto rovesciare Zelensky e trasformare l’Ucraina in una seconda Biellorussia, per carità. Fin dall’inizio il vero obiettivo era stato liberare le minoranze russe oppresse in Donbas e mettere al sicuro la Crimea. Non era un gran che ma sarebbe stato meglio che niente.
A questo riguardo le forze impegnate nel settore nord e nord-est vennero fatte rientrare in Russia, ricondizionate, nuovamente equipaggiate e spedite in Donbas. Tuttavia, dopo otto anni di guerra proprio nel Donbas l’esercito ucraino aveva concentrato il meglio delle proprie truppe e allestito solide linee difensive. Per nulla scoraggiati i russi passarono comunque all’offensiva. Un’offensiva metodica, pesante e lenta che portò alla conquista di Severodonetz e della gemella città di Lisichansk. Poi più nulla.
Lanciarazzi multiplo russo TOS-1 A. Ricavato dallo scafo del carro armato T 72, il TOS-1 lancia 24 razzi da 220 mm,
Nel Donbas, man mano infatti che ci si avvicinata al cuore della linea difensiva ucraina, quella per intendersi allestita già nel 2014, le cose per le fanterie di Mosca si facevano sempre più dure fino a determinarne l’esaurimento.
In campo internazionale, tra il blocco dei paesi che costituivano il fronte pro-Ucraina, non ci si accontentava più delle sole sanzioni. L’enorme attrito della guerra aveva infatti convinto Washington e molte altre capitali a rastrellare ogni carro, ogni obice e ogni cingolato di produzione ex-sovietica ancora disponibile e a spedirlo al fronte ucraino. In prima fila la Polonia che alla fine avrebbe fornito quasi 240 carri armati T72MR insieme a svariate centinaia di BMP2, poi 2.500 fucili d’assalto dalla Finlandia, elicotteri dalla repubblica Ceka, 8 obici semoventi dalla Slovacchia e via così. Persino la neutralissima Svezia aveva pensato di inviare quasi 10.000 AT4, lanciarazzi controcarri del tipo spara&getta.
Naturalmente la parte del leone l’avrebbero fatta gli Stati Uniti che avrebbero rifornito l’arsenale ucraino di moderni obici M777 a traino meccanico, obici semoventi M109 L, trasporti truppe, munizioni a vagoni e soprattutto i nuovi lanciatori HIMARs, missili a guida GPS in grado di colpire un terrazzino a 70 km di distanza.
Lanciatore USA HIMARS
Sul fronte opposto anche la Russia stava accusando una certa crisi di munizionamento, soprattutto in campo missilistico. La campagna di lancio iniziata a fine febbraio si stava protraendo ormai da alcuni mesi al ritmo di 70/100 missili al giorno; troppo anche per i consistenti arsenali dell’orso russo. Meglio quindi ricorrere a qualcosa di molto più economico e altrettanto efficacie: i droni iraniani Shahed 136, trabiccoli spinti dall’equivalente di un motore per APE Piaggio, ma in grado di portare una trentina di chilogrammi di esplosivo a oltre 200 km di distanze e soprattutto disponibili per poche migliaia di dollari l’uno.
Droni iraniani Shahed 136.
La primavera andava ormai declinando nell’estate. Da parte russa i roboanti proclami di Medvedev minacciavano cataclismi all’occidente e si sovrapponevano alle minacce non tanto velate di uso estremo dell’arma nucleare. La televisione russa magnificava la nuova generazione di armi ipersoniche, capaci di viaggiare da 10 a 100 volte la velocità del suono (320 m/sec) e in grado di colpire chiunque in un lampo. Venne evocato anche il super-siluro “poseidon” in grado addirittura di: “affondare la Gran Bretagna”. Quella che invece il 14 aprile affondò davvero fu invece l’ammiraglia della flotta russa nel mar Nero: l’incrociatore lanciamissili “Moskwa”, colpita, sembra, da missili ucraini Neptune.
l’affondamento dell’incrociatore russo Moskwa.
Non era certo la prima nave russa ad essere colpita. C’era stata la fregata lancia missili Admiral Makarov colpita al largo dell’isola dei serpenti e prima era toccato alla nave anfibia Saratov, della classe Alligator, distrutta mentre era ancorata nella città ucraina di Berdiansk.
barchino esplosivo ucraino.
Sul piano internazionale altre brutte notizie per Mosca. A metà maggio, dopo due secoli di neutralità la Svezia faceva richiesta di ammissione alla NATO in contemporanea alla Finlandia che anch’essa aveva passato gli ultimi settanta anni in vigile neutralità. In termini strategico-operativi ben presto il mar baltico si sarebbe trasformato in una lago della NATO in cui la base russa di Kalinigrad sarebbe rimasta intrappolata. Certo, qualcuno avrebbe potuto obiettare che anche Mosca s’era presa tutto il Mar d’Azov, ma la valenza geo-strategica dei due era imparagonabile.
L’estate si avvicinava e con essa la ripresa delle operazioni su ampia scala. Tuttavia dopo mesi di combattimenti durissimi l’iniziativa stava per passare in campo ucraino. Si iniziò con una operazione di maskirovka in perfetto stile sovietico, vale a dire far credere ai Russi che la grande offensiva, sostenuta e alimentata dall’Occidente si sarebbe sviluppata proprio a sud, tra Kherson e Zaporizhzhia, allo scopo evidente di tagliare in due il corridoio che nel frattempo i russi avevano faticosamente costruito tra il Donbas, quasi conquistato e la Crimea occupata. I russi ci avevano creduto al punto da concentrare ad est del Dniepr il meglio delle loro forze, anche a costo di sguarnire il settore nord, quello di Kharkiv, ritenuto più tranquillo. Ma proprio contro Kharkiv l’esercito ucraino aveva scatenato l’attesa offensiva. Fin dal primo giorno era apparso chiaro che i russi erano rimasti davvero sorpresi. I reparti di Kiev penetravano per chilometri in territorio occupato senza incontrare alcuna resistenza. Centinaia di mezzi, carri armati, obici di artiglieria e munizioni giacevano abbandonati nei depositi, divenendo preziosissima preda bellica per l’asfittica logistica di Kiev. Alla fine di settembre l’armata russa sembrava a un passo dal collasso, ma quel passo non fu fatto.
Per stanchezza dei reparti ucraini, per l’allungamento delle linee logistiche o per inasprimento della resistenza russa ad ottobre l’offensiva che sembrava essere in grado di ricacciare i russi da dove erano venuti si era esaurita. Alla fine il bilancio per Kiev era stato più che positivo: l’intera regione di Kharkiv era stata liberata; la rete ferroviaria e stradale – vero punto vitale della logistica russa – erano ora in gravissima difficoltà per tacere del grande successo ottenuto di fronte all’opinione pubblica mondiale.
Per far fronte alle gravi perdite subite e anche per annunciare che la Russia non avrebbe mollato tanto facilmente, il 21 settembre Putin annunciava la mobilitazione parziale di oltre 250.000 coscritti delle classi da poco congedate. Non fu un gran successo, non tanto per la renitenza di molti, che per altro ci fu, ma per la grave disorganizzazione della macchina di reclutamento russa, ormai da anni adeguatasi alle esigenze di un esercito professionale. Censire, avvertire, sottoporre a visita medica, assegnare alle unità addestrative, equipaggiare e armare migliaia e migliaia di giovani recalcitranti non era infatti impresa facile. I primi o forse semplicemente quelli con minore specializzazione vennero subito spediti sulla linea del fronte del Donbas dove c’era semplicemente da tener duro. Gli altri vennero inviati ai centri di addestramento per trasformarli in soldati impiegabili per il resto della guerra.
Qualche scossone la serie di rovesci militari l’avevano dato anche ai vertici dell’operazione militare speciale. Da ricordare la sostituzione a capo delle operazioni in Ucraina del generale Dvornikov con Sergej Surovikin, un roccioso siberiano il cui soprannome è tutto un programma: “Armageddon”. Sarà lui a inaugurare la campagna di bombardamento missilistico su Kiev, Zaporizhzhia, Dnipro, Mykolaiv, Zhytomyr, Ternopil e Lviv e sempre a lui si dovrà la decisione di abbandonare Kherson, «il balcone su Odessa», divenuto ormai indifendibile e dove circa 20.000 soldati russi rischiavano di rimanere intrappolati.
Il resto, da ottobre ad oggi, è cronaca quotidiana. Due eserciti che si massacrano vicendevolmente su una linea del fronte ormai fossilizzata. Minime oscillazioni quotidiane, perdita e conquista di pochi chilometri, a volte di qualche centinaia di metri; costanti bombardamenti di artiglieria rappresentano il filo conduttore di questi mesi. Come nel 1916 o nel ’17 si resta in attesa della prossima e definitiva vittoriosa offensiva. Oppure se non della pace almeno di un cessate il fuoco, ma per questo dovremo ancora attendere per poterne raccontare.
Il 26 maggio 1896 nella chiesa della dormizione al Cremlino, veniva incoronato Nicola II Romanov, l’ultimo zar di tutte le Russie.
A quel tempo, come al nostro, di Russia non ce n’era infatti una sola. Certo, c’era la Grande Russia, quella per intenderci di Mosca e San Pietroburgo, ma poi c’era la Russia Bianca di Minsk e laggiù, più a sud, la Piccola Russia di Kiev.
Quasi 130 anni sono passati da allora. Nicola II fece una brutta fine e anche ai suoi successori sovietici non toccò maggior fortuna, ma su una cosa Nicola II, Stalin, Breznev e ora Putin si sarebbero trovati d’accordo: la grande Madre Russia, per essere tale, deve comprendere la Grande, la Bianca e la Piccola Russia, vale a dire l’Ucraina. Questo è il punto di partenza scelto per ripercorrere gli antefatti di questa guerra che oggi compie un anno e che, se non si cerca di ricordare cosa è accaduto prima, rischia di restare incomprensibile.
Malgrado le radicate convinzioni dei vari Zar e Segretari del PCUS, negli ultimi cento anni metà degli Ucraini si siano ostinati a immaginare la grande pianura a nord del Mar Nero come una Patria a sé, non una piccola Russia, ma una terra a parte: le loro.
Evoluzione storica dei territori che compongono l’Ucraina (fonte WEB=
A ben guardare le realtà geopolitiche dell’Ucraina sono state, e sono tutt’ora, quattro: l’Ucraina occidentale, mitteleuropea, asburgica e germanofila di Leopoli, quella orientale russofila e panslavista di Kharkiv a cui si affiancano l’Ucraina centrale con capitale Kiev e le grandi distese dell’Ucraina meridionale a cavallo del grande fiume Dnepr che oltre al Donbas racchiudono anche tutta la fascia litoranea al Mar Nero.
Per tutto il XX secolo entrambe le Ucraine principali, quella orientale e quella occidentale, hanno tentato di fagocitare le rispettive “sorelle separate” per dar vita a una “Grande Ucraina”. Ogni volta che uno di questi progetti tentava di mettere le ali trovava però qualcuno dei suoi bellicosi vicini, vuoi l’Austria-Ungheria, vuoi la Russia sovietica, vuoi la Polonia, disposto a scatenare una guerra per impedirlo. La storia politica dell’Ucraina è quindi una storia di impossibili fughe e di incredibili massacri. Quello iniziato il 24 febbraio dello scorso anno non è che l’ultimo.
Come nella filastrocca di Branduardi a questa crudele fiera dell’Est venne prima la Russia che si mangiò l’Ucraina fino a Kiev e al Dnepr, poi venne l’Austria che si mangiò l’Ucraina a ovest del fiume; venne poi la prima guerra mondiale che si mangiò l’Austria e lasciò metà ucraina in bocca alla Polonia e infine venne l’Unione sovietica che si mangiò la Polonia e, naturalmente, tutta l’Ucraina. Infine la crisi di fine anni ’80 si mangiò l’Unione sovietica e per un breve periodo nessuno ebbe più la forza di mangiarsi ancora l’Ucraina. Almeno fino ad un anno fa.
A partire dal pomeriggio dell’8 dicembre 1991, quando Michail Sergeevič Gorbačëv, ultimo segretario generale del Partito Comunista Sovietico, annunciò al mondo lo scioglimento dell’URSS, ci sono voluti quasi trent’anni perché la Russia, quella Grande, si rimettesse in forze e si ricordasse di non poter vivere senza le sue cugine minori. Nel frattempo la Federazione russa aveva perduto tutto il suo “estero vicino”, cioè quella cintura di territori sui quali esercitare un’influenza diretta se non addirittura il controllo e sui quali poter eventualmente combattere prima di coinvolgere il proprio territorio negli orrori di una guerra futura che nella mente di un russo verrà comunque da ovest.
La NATO e il Patto di Varsavia ai tempi della guerra fredda
Di quella cintura di stati che era stato il “patto di Varsavia” da lì a poco sarebbero rimasti solo la Russia Bianca, vale a dire la Bielorussia e la Piccola Russia, vale a dire l’Ucraina. Tuttavia mentre la Bielorussia s’era tenuta ancora agganciata a Mosca attraverso un simpatico dittatore di fabbricazione ex-sovietica, l’Ucraina s’era messa in testa di vivere il suo sogno d’indipendenza vera; magari nell’Unione Europea. Magari addirittura nella NATO.
Con ogni evidenza o forse in barba ad essa, a Kiev in pochi avevano considerato che quando la tua popolazione è meno di un terzo di quella del tuo vicino; quando attraverso il tuo territorio l’ipertrofico vicino ha accesso alla sua unica base navale nel Mar Nero; quando produci gran parte dell’approvvigionamento cerealicolo del mondo; quando nelle tue fabbriche e nei tuoi cantieri costruisci un terzo degli armamenti destinati al mercato bellico del potente vicino, allora certe idee non te le puoi permettere o almeno devi farlo con una certa cautela. Insomma, nuotare accanto alla balena ha i suoi inconvenienti.
Di sicuro Thomas Wilson, presidente americano ai tempi della conferenza di Versailles e propugnatore del principio di autodeterminazione dei popoli, non sarebbe d’accordo, ma per voler invece citare un politico di casa nostra, Giulio Andreotti, viene da dire che nel mondo reale il diritto internazionale, i trattati, le convenzioni “per qualcuno si applicano e per altri si interpretano”.
Da quelle parti i quarant’anni di guerra fredda e di blocchi contrapposti sembravano aver congelato ogni pensiero, compreso quello di un’Ucraina indipendente. Certo, qualche volta come in Ungheria nel ’56 o Praga nel 1968, qualcuno ci aveva provato, ottenendo sempre la stessa risposta: i carri armati russi in piazza e una vibrata protesta da parte di Washington e delle altre capitali del mondo libero.
1989 – autovetture Trabant che dalla DDR attraversavano il confine ungherese nei giorni della caduta del muro di Berlino
Tuttavia quando nell’89 i 27 cavalli delle Trabant travolsero il muro di Berlino, insieme al sol dell’avvenire tramontò anche l’ordinato mondo dei blocchi, dei carri armati in piazza e delle vibrate proteste. In quegli anni ormai lontani tutti i satelliti dell’ex-URSS fecero a gara nel fuggire da Mosca e a rifugiarsi nel caldo abbraccio dell’Occidente. Nel 1999 la Polonia, nella cui capitale era stato firmato il Patto di Varsavia, entrava nella NATO; due anni prima l’Ungheria aveva tenuto un referendum sull’ingresso nell’Alleanza: era stato un plebiscito di si. Seguirono poi la Romania, la Cecoslovacchia e infine le tre repubbliche baltiche che addirittura avevano fatto parte dell’Unione Sovietica. Per ogni abbraccio di ritrovata fratellanza con il temuto occidente la Grande Russia digrignava i denti, consapevole che stava via, via perdendo pezzi fondamentali del suo “estero vicino”.
Tra i due stati superstiti l’Ucraina aveva ben presto iniziato ad oscillare tra Russia e Europa e per quasi vent’anni si era assistito ad un balletto continuo di nuovi primi ministri una volta filo russi e l’altra filo occidentali fino ad arrivare al 2014 quando in piazza Maidan, in pieno centro a Kiev, migliaia di persone avevano fatto ben capire che il sogno di aderire all’Unione Europea era qualcosa di più di un semplice sogno.
Kiev – piazza Maidan ai tempi delle manidestazioni per l’ingresso nella UE
L’aveva capito bene anche Viktor Janukovyč, ultimo presidente filo-russo della repubblica ucraina che il 24 febbraio 2014 lasciava Kiev per la Russia inseguito da un mandato di cattura.
Le tappe che hanno portato all’oggi possono essere riassunte, partendo, se si vuole, da un’altra invasione russa, quella della Crimea, oppure dalla strage al palazzo dei sindacati di Odessa nel maggio del 2014 o anche dall’abbattimento il 17 luglio 2014 del Boing 777 della Malaysia Airlines in servizio fra Amsterdam e Kuala Lumpur; Scegliete voi.
Resti del Boing 777 della Malaisyan Airlines abbattuto nel 2014 sull’Ucraina da un missile russo.
Si può anche partire, perché no, dal Donbass dove nell’aprile dello stesso 2014 l’esercito di Kiev e i separatisti delle regioni di Donetsk e Lugansk iniaizvano a scambiarsi le prime cannonate, bruciare qualche villaggio qua e là, deportare questo e quello. Secondo l’UNHCR, l’Alto commissariato dell’ONU per i Rifugiati, negli otto anni che precedono l’anniversario di oggi oltre un milione e mezzo di profughi ha lasciato il Donbas, dei quali 400.000 si sono rifugiati in Russia e 14.000 sono i morti. Tutto questo senza che in occidente qualcuno si accorgesse di nulla. E non ci si era accorti neppure dei così detti “accordi di Minsk”, patrocinati da Francia, Germania e Russia con i quali si era tentato di risolvere la faccenda, ma che per spontanea ammissione di Angela Merkel, al tempo cancelliere tedesco, erano serviti solo a guadagnare tempo.
Tempo per far cosa? Di certo non per trovare una soluzione.
Da un lato della barricata infatti Vladymir Putin, il nuovo autocrate di quasi-tutte-le-Russie, sapeva di non poter perdere quell’ultimo pezzo di “estero vicino”, ma aveva ben chiaro anche di non essere ancora pronto a combattere una guerra per tenerselo stretto. Si accontentava così di sovvenzionare i gruppi neo-nazisti della Piccola Russia per avere un casus belli da usare in futuro e nel frattempo riempiva di armi, munizioni e istruttori le milizie del Donbas, senza peraltro trascurare di ungere con una montagna di dollari chiunque tra oligarchi, politici e locali capi-popolo potesse aiutarlo a riportare a casa la cuginetta ribelle.
Foto di gruppo dei firmatari del Trattato di Minsk
Dall’altro lato della barricata, quello che guarda a Occidente, la svolta di Kiev appariva sempre più decisa e chiara. Il dialogo e la cooperazione tra NATO e governo ucraino erano infatti iniziati già nel lontano 1991, l’anno del quasi colpo di stato a Mosca ma anche della indipendenza ucraina. Allora Kiev aveva deciso di aderire al Consiglio di Cooperazione del Nord Atlanticoper poi entrare nel 1994 nel programma Partnership-for-Peace (Partenariato per la Pace – P f P), avviato dall’Alleanza a favore di tutti i paesi dell’ex “Patto di Varsavia” e le repubbliche ex –sovietiche che l’avessero richiesto. Erano quelli gli anni convulsi di Boris Eltsin e del partito comunista di Zjuganov; Chernobyl ancora fumava e le iniziative della NATO non avevano suscitato significative proteste da parte di Mosca. Almeno allora.
Nel 1997, mentre in Gran Bretagna si pubblicava il primo libro di Harry Potter e a Parigi sotto il tunnel dell’Alma moriva Lady Diana, la NATO e l’Ucraina davano vita al NATO-Ukraine Council (NUC) e sempre dal 1997 l’alleanza apriva a Kiev, in via Melnykova 36/1, il NATO Information Documentation Center (NIDC). Nel 1999 era stata poi l’ora di una rappresentanza “semi diplomatica”; il NATO Liaison Office (NLO: Ufficio di Collegamento della NATO). Anche sul piano operativo e delle missioni Ucraina e NATO si erano dati da fare. Dal 1996 Kiev aveva contribuito attivamente a tutte le operazioni e alle missioni a guida NATO, a partire da quelle in Bosnia, in Kosovo e in Afghanistan; alle operazioni anti-pirateria nell’Oceano Atlantico, fino a mandare suoi soldati alla NATO Reaction Force.
Insomma un’amicizia di lunga data che era andata in crescendo fino al 2008 quando al summit dei capi di stato e di governo dei paesi NATO a Bucarest, il Presidente USA George W. Bush, dopo aver spianato l’Iraq di Saddam, propone e sostiene con forza la necessità di far entrare Ucraina e Georgia nell’Alleanza. Solo la decisa opposizione di Francia e Germania aveva allora fermato l’iniziativa americana. Intanto da circa otto anni al Cremlino s’è insediato Vladimyr Putin, personalità ben diversa da Eltsin; deciso a far uscire la Russia dalla palude degli anni ’90 e molto attento a come la NATO si stava muovendo nello spazio ex-sovietico.
BMP 2 Ucraino in Donbas
Si ritorna quindi al 2014 quando l’esercito di Kiev, mal equipaggiato, male addestrato e peggio comandato rischia di essere travolto nella repressione delle rivolte in Donbas, ovviamente sostenute e foraggiate dai Russi. Visti gli amichevoli trascorsi era allora sembrato naturale a Kiev di rivolgersi alla NATO per rimodernare le proprie forze armate, ripristinarne l’immagine tra la popolazione e aumentarne l’efficienza. Si trattava però di un processo lungo e gli ucraini volevano muoversi in fretta, anche perché Putin era sempre più infastidito dall’intraprendenza dell’Occicdente verso Kiev e non lo mandava certo a dire.
Mentre americani e britannici si davano da fare per rimettere in piedi l’esercito, il governo pensò di ricorrere alle milizie paramilitari, composte in gran parte da mercenari stranieri; ex combattenti delle guerre balcaniche; ultras di calcio e militanti di estrema destra. Nel 2020 le milizie costituivano circa il 40% delle forze ucraine arrivando a contare quasi 100.000 uomini ripartiti in diverse formazioni, quasi tutte armate, finanziate e addestrate da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Francia. Queste milizie nel 2014 avevano peraltro avuto una parte importante nella rivolta di Euro-Maidan, trasformandola da iniziale protesta giovanile in una rivoluzione vera e propria con tanto di morti e feriti.
Negli stessi mesi Mosca non era rimasta certo con le mani in mano, organizzando un’operazione ibrida che entrerà nei libri di strategia militare: l’occupazione della Crimea. Non si era trattato di una vera e propria invasione, almeno non in senso classico. Nei mesi precedenti Mosca aveva sapientemente suscitato e quindi cavalcato il sentimento di crescente preoccupazione della popolazione russa della penisola nei confronti del governo di Kiev, sempre più anti-russo. Dopo qualche mese di manifestazioni, proteste e richieste di aiuto la Madre Russia che non può certo rimanere insensibile al “grido di dolore” che si levava dalle sponde del Mar Nero dove, incidentalmente è tuttora alla fonda l’unica flotta russa con sbocco sul Mediterraneo.
militari russi
E’ questa l’operazione dei così detti “omini verdi”, componenti delle forze speciali di Mosca che senza insegne e gradi ma con armamento alla mano occupano i gangli della Crimea dichiarandola infine liberata.
L’occidente aveva reagito non con una vibrata protesta come ai bei tempi ma con una serie di sanzioni economiche non particolarmente gravi. Nessuno allora pensava di spedire a Kiev neppure un proiettile o un obice per aiutarla nella riconquista.
Passano altri otto anni prima che la Federazione russa pensi che i tempi per riprendersi l’Ucraina siano ormai maturi. A qualcuna verrà da domandarsi come diavolo possa venore in mente di scatenare una guerra, invadere una nazione indipendente allo scopo di soggiogarla. Queste erano cose molto di moda nel XIX secolo, non più nel nostro. non più in Europa. La domanda benché legittima è tuttavia illuminante di quanto il nostro modo di pensare e di immaginare l’azione politica sia ormai lontano da quello di molti altri, in primis da quello di Putin.
Questa ricostruzione dell’antefatto, per quanto rozza, sarebbe gravemente incompleta se si trascurasse peraltrodi accennare a quale sia ancor oggi il sentimento che fin dal suo costituirsi anima la “Grande Russia”. Una nazione che accoglie oltre duecento nazionalità le quali in gran parte costruiscono la propria identità sulla narrazione dell’appartenenza a una terra perennemente in pericolo, sempre sotto assedio da parte dell’Occidente come dell’Oriente.
I popoli che abitano questo immenso spazio sanno che non ci sarà mai una grande catena montuosa a proteggerli, né un oceano, né un deserto. Solo un immenso spazio aperto dove ogni rischio, ogni minaccia può trasformarsi in tragedia. Nel corso dei secoli i russi pertanto hanno imparato che se vogliono continuare ad abitare il loro spazio devono essere pronti ad accettare immensi sacrifici pur di prevalere. E’ stato così contro i mongoli, i tartari, gli svedesi, i turchi, i polacchi così come contro i tedeschi del Kaiser o quelli di Hitler. Figurarsi se americani o addirittura i cugini della Piccola Russia potevano davvero metter loro paura.
Anzi, nel caso dell’Ucraina per Mosca c’è anche l’aggravante del tradimento perpetrato da un parente stretto. Insomma la “Grande Russia” ha sempre guadato all’Ucraina come un piez’e core! Poco importa se negli ultimi cento anni gli ucraini abbiano fatto di tutto per ricavarsi un proprio spazio e ancora meno che i Russi, zaristi prima e sovietici poi, abbiano risposto con stragi, fame e persecuzioni: la “Piccola Russia” è comunque affare di famiglia. Vale dunque la pena scatenare una guerra per tenersela? Certo che ne vale la pena, costi quel che costi.
La Federazione Russa oggi
Ecco allora la prima lezione impartita da questa guerra ancora in corso: per gli imperi l’economia non è tutto, anzi è molto poco. Sono il potere, il prestigio, la gloria ad essere vitali. Immaginate infatti l’effetto prodotto a Mosca dalle parole del presidente Obama quando nel 2004 definì la Federazione Russa una ”potenza regionale”.
La Russia sa bene che è condannata ad essere un impero ovvero a non essere affatto e di fronte a questa prospettiva esiziale è disposta a giocarsi tutto.
C’è infine un altro aspetto, minore ma non secondario, che può aiutare a capire meglio il perché Putin abbia deciso di passare alle vie di fatto. Tale aspetto si chiama PAURA. Paura di cosa? Di un modello.
La possibilità cioé che l’Ucraina – anche non appartenendo alla NATO e forse neppure all’Unione Europea – potesse comunque sviluppare una democrazia sostanziale e consentisse ai suoi cittadini di vivere meglio dei suoi dirimpettai era ed è per Mosca una prospettiva intollerabile. Significherebbe infatti introdurre un virus letale in un sistema di governo che dal tempo di Ivan il Terribile si è sempre basato su l’uomo solo al comando, circondato da una ristretta cerchia di fedelissimi e dove i ricambi avvengono per eliminazione fisica dell’avversario.
C’era bisogno comunque di una guerra? Forse no. Forse neppure i pianificatori russi l’avevano prevista o forse solo immaginata di sfuggita. Rimane il fatto che la Federazione russa il 24 febbraio dell’anno scorso ha passato la frontiera ucraina invadendo il paese da cinque direzioni differenti. Di questo però parleremo nella seconda parte di questa ricostruzione. Alla prossima puntata.
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