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IO SO CHE TU SAI CHE IO SO

Salve professor Falken, strano gioco; l’unica mossa vincente è non giocare!” Così rispondeva Joshua, il mostruoso computer del NORAD, a pochi istanti dall’apocalisse nucleare. Il film era “Wargame”, gli anni quelli di Reagan e de “l’impero del male”. Da allora sono trascorsi quasi quarant’anni durante i quali in pochi avranno pensato realistico evocare il fantasma nucleare sull’Europa. L’ha fatto Vladimir Putin, presidente della Federazione russa, alle prese in questi giorni con l’incerto andamento della sua guerra contro l’Ucraina. Il 24 febbraio, un giovedì qualsiasi è arrivata infatti la guerra; quella vera. La paura di un nuovo conflitto mondiale, l’inverno nucleare, la possibilità di una prossima fine del mondo hanno interrotto la zuffa epidemica alla quale, dobbiamo confessarcelo, c’eravamo anche abituati. Ma se ci si ferma a riflettere scopriremo che, paradossalmente, è stata proprio la paura, anzi il terrore a garantirci il più lungo periodo di pace nella storia dell’uomo. Certo dalla fine della 2^ guerra mondiale di crisi globali e guerre locali ne abbiamo avute tante, qualcuno dice più di cinquecento, ma mai siamo stati davvero sul punto di giocarci la vita dell’intero pianeta e credo che, malgrado le truculente descrizioni della TV di stato russa, non lo siamo neppure questa volta. Tuttavia una remotissima possibilità rimane; laggiù, nell’Ade dell’inimmaginabile ma pur sempre reale, vediamo quindi come siamo arrivati a questo punto.

Nei diecimila anni della storia della guerra ci sono due date che faremo bene a ricordare perché è a partire da quei due giorni che l’umanità ha davvero avuto la concreta possibilità di estinguersi per un atto volontario. La prima è il 6 agosto 1945, un lunedì, quando alle 8,15 gli americani annunciarono al mondo e a 150.000 ignari giapponesi di avere il monopolio della morte nucleare. L’altra è un altro lunedì di quattro anni dopo, il 29 agosto 1949, quando a Semipalatinsk, nel remoto Kazakistan, i russi fecero esplodere la loro prima bomba atomica, annunciando che il monopolio era finito. Da quel momento inizia la costruzione dell’equilibrio di terrore tra le due superpotenze, un equilibrio basato su una certezza: mai, in ogni momento, in qualsiasi circostanza un attacco nucleare portato dall’uno contro l’altro avrebbe garantito una vittoria che avesse un minimo di senso. Per decenni e ancora oggi si è trattato quindi di conservare un equilibrio dinamico dove ognuna delle parti ha cercato di aprire uno spiraglio a quell’impossibile vittoria; spiraglio rapidamente chiuso dall’antagonista di turno attraverso l’introduzione di nuovi armamenti, più precisi, più letali e più numerosi. E via così.

Si era iniziato negli anni ’50 con i bombardieri strategici, aerei in grado di trasportare in qualche ora una bomba atomica sul territorio del Nemico. I missili a quel tempo erano ancora troppo rudimentali, troppo inaffidabili e troppo imprecisi per affidare loro una missione così definitiva. Ci vollero gli anni ’60 perché sia la Russia sia gli Stati Uniti arrivassero a costruire missili che fornissero una certa garanzia. Ad arrivare per primi furono i russi che tirarono fuori l’R-7 Semiorka, un mostro di 280 tonnellate alto 30 metri capace di trasportare una testata atomica a 9.000 chilometri dal luogo di lancio con la precisione di qualche chilometro. Gli americani risposero con l’ATLAS che di tonnellate ne pesava la metà ma arrivava a 18.000 chilometri e via così per tutti gli anni ’60 e ’70. Sono gli anni dei MINUTEMAN, dei JUPPITER e di un’intera famiglia di missili russi dai nomi impronunciabili che sostanzialmente davano vita a due famiglie diversi: i missili balistici e quelli da crociera o “cruise”, per dirla all’americana. Si trattava e si tratta ancora di armi completamente diverse. I primi, i missili balistici si comportano come un sasso lanciato lontano. Hanno cioè una traiettoria balistica con un tratto ascendente; un vertice , di solito ben fuori dall’atmosfera, e un tratto discendente che termina sull’obiettivo. Poche o nulle le possibilità di modificare la traiettoria. Un cruise è un’altra storia. E’ sempre un missile ma somiglia e si comporta come un aereo. Il suo volo all’interno dell’atmosfera è programmabile e anche largamente modificabile. fino al punto di impatto. Dopo questa necessaria precisazione torniamo ai missili.  Per mantenere l’equilibrio non bastava avere missili intercontinentali in grado di annichilire il Nemico, il suo esercito e le sue città. Bisognava prima essere certi che il Nemico che volevamo annichilire non fosse in grado di distruggere i nostri missili prima che noi distruggessimo i suoi.  In altri termini oltre a possedere un missile micidiale bisognava disporre anche di un luogo dove custodirlo e che fosse a prova di bomba. E’ questa l’epoca delle grandi basi missilistiche tanto care alla cinematografia degli anni ’70. Enormi silos di cemento armato e acciaio, sperduti nelle praterie americane o nelle steppe sovietiche, centri comando a centinaia di metri sotto terra, recinzioni e aree riservatissime. Ed è tutt’oggi ad esempio per la Russia che affida a missili balistici intercontinentali gran parte delle circa 4.477 testate nucleari di cui si stima disponga (stime 2022). I siti di lancio fissi sono visibili dallo spazio, e le loro attività, anche lo sfalcio dell’erba sono monitorate secondo per secondo offrendo così la reciproca e quotidiana possibilità di sapere se il mio Nemico anche oggi ha deciso di regalarsi un giorno di vita oppure sta facendo qualcosa di inatteso e preoccupante. In questo caso reagirò immediatamente, lui se ne accorgerà subito e probabilmente si tornerà nella normalità il più presto possibile. Tutto risolto? Certo che no. Ad entrambi le potenze atomiche era infatti venuto in mente che, in fondo, questi missili potevano essere lanciati anche da un treno o da un camion piuttosto robusto. Come si fa a tenere sott’occhio ogni camion e ogni treno dalla Siberia alla Montagne Rocciose? A quel punti l’equilibro sarebbe stato troppo dinamico e la possibilità che qualcuno ne approfittasse troppo alte. Che fare? Semplice, si rilancia con qualcosa di ancora più difficile da individuare; un sottomarino a propulsione nucleare, ad esempio. Un battello da un miliardo di dollari in grado di navigare in immersione per mesi e di arrivare così vicino alle coste nemiche da non dar tempo neppure di recitare l’ultima preghiera. Sul finire degli anni ’70 si era quindi composta quella che ancora oggi è definita come la “triade nucleare”, formata da bombardieri strategici, missili intercontinentali e sottomarini nucleari. Anche la triade merita una veloce riflessione. Se un bombardiere che trasporta qualche ordigno nucleare impiega infatti qualche ora per raggiungere il punto di rilascio e lo stesso per un sottomarino, allora posso anche avere il tempo per tentare di far rientrare la crisi, di cercare una soluzione o di convincere il Nemico che si fa sul serio. Basta un messaggio all’ultimo secondo e il bombardiere, con un’elegante scivolata d’ala, rientrerà alla base e il sottomarino potrà invertire la rotta. Insomma nella triade bombardieri e sottomarini permettono di spaventare a morte ma anche di fermarsi prima dell’irreparabile. Il missile invece non dà tempo. Una volta che l’autorità suprema ha deciso di lanciarlo e la sequenza di lancio sarà ultimata decollerà e arriverà sul bersaglio in meno di un’ora, senza possibilità di ripensamento. E’ l’arma definitiva. Si potrebbe ora discutere di missili a combustibile solido o liquido, di missili cruise, di MIRV e di sistemi di guida a mappatura stellare. Argomenti tutti interessantissimi che però rischiano di distogliere il ragionamento dal suo punto cruciale. Siamo noi in grado, o meglio, sono in grado i decisori ultimi di provare il necessario terrore che gli impedirà anche il solo pensare a ricorrere all’arma nucleare? In fondo la costruzione di missili nucleari tattici, cioè meno potenti, l’invenzione delle testate multiple e indipendenti, i sistemi di guida in grado di colpire con una scarto di qualche metro non risolvono la questione. Chi decide ha o non ha la percezione intima di cosa sta facendo? Avverte una salvifica paura? Si entra qui nel campo della fede che nessuna procedura di sicurezza, per quanto accurata e testata, può rendere una certezza. Vorrei pensare che ogni volta che una delle potenze atomiche ha forzato la mano agitando la sua valigetta nucleare lo ha fatto solo per ricordare a tutti che è necessario avere paura e di conseguenza scegliere un’altra strada. Si è accennato qui alle potenze atomiche, ma quante sono e soprattutto, ci si può fidare? Decidete voi. Della Russia e degli Stati Uniti abbiamo già parlato; ad essi da anni si è affiancata la Repubblica Popolare Cinese che da non molto, grazie ai sottomarini classe Shang, dispone anch’essa della triade nucleare così come Francia, Gran Bretagna, India e Pakistan. Israele e Corea del Nord completano il club, ma non dispongono di sottomarini in grado di rilasciare missili balistici nucleari. Ciascuna di queste nazioni ha la possibilità di condurre o di reagire a una guerra nucleare il che le rende completamente diverse da tutte le altre, sia nella politica, sia nella considerazione del loro collocarsi nel consesso mondiale.

Alla luce di questa panoramica come si inquadrano duque le parole di Putin circa armi terribili e mai viste? In larga parte si tratta, come è ovvio, di propaganda. È propaganda infatti l’ultimo missile RS-28 “SARMAT”, che la NATO denomina “SATAN”. I russi, in base ai nuovi obblighi del Trattato START, hanno infatti adeguatamente informato gli Stati Uniti del test e gli USA hanno monitorato il collaudo del missile russo con due aerei RC-135S Cobra Ball. Questi aerei dispongono di apparecchiature specializzate per tracciare questi tipi di armi e raccogliere dati di telemetria e altri dati di intelligence elettronica, nonché immagini visive. Dunque il lancio avvenuto il 20 aprile 2022 alle 15:12 (ora di Mosca) dal cosmodromo di PLESETSK nella regione di ARKHANGELSK era perfettamente noto. Così come è noto che il SARMAT è stato lanciato con successo da una postazione fissa terrestre e che le attività di collaudo del lancio sono state completate con successo con le testate multiple di addestramento che hanno colpito obiettivi nel poligono di addestramento di KURA nella penisola di KAMCHATKA. Si sa anche che nella base missilistica di UZHUR, nel territorio di KRASNOYARSK, sono in corso i lavori per preparare il reggimento missilistico locale al nuovo sistema d’arma che sostituirà il più anziano R-36M “VOEVODA” dell’era della Guerra Fredda.

Non c’è da preoccuparsi dunque. In realtà qualche motivo di preoccupazione lo si potrebbe avere e riguarda la famiglia delle cosiddette “armi ipersoniche”. Si tratta di missili che si muovono nell’atmosfera ma ad elevatissima velocità – si parla da mach 5 a mach 25 – che tradotto in chilometri all’ora, per chi riesce ad immaginarlo, sarebbero da 6.000 a 30.000 km/ora. A quelle velocità il tempo di volo e anche la capacità che questi missili hanno di cambiare traiettoria rendono la loro scoperta e il successivo abbattimento quasi impossibile. Ecco quindi che sono armi che rompono quell’equilibrio dinamico a cui si è sempre accennato. Oltretutto Russia e Cina, competitori primari degli Stati Uniti, sono molto avanti in questo settore sebbene Washington abbia investito moltissimo per ristabilire l’equilibrio e, magari, spostarlo a suo favore. Si tratta dunque della solita meccanica di azione e reazione che da settant’anni regola gli equilibri in questo pianeta. Reggerà per sempre o da qualche parte c’è già un dottor Stranamore pronto a tentare il colpo, magari di lunedì, magari d’agosto. Vedremo.

ARMARSI UN PO’ E’ COME BERE…

… più facile che… ragionare. Breve viaggio nel delirio europeo.

È passato qualche giorno dalla figuraccia in mondo visione del colloquio Trump-Zelensky a Washington, il tempo minimo per tentare una riflessione.

Primo fatto: l’uscita di scena di Zelensky è già nell’aria da diversi mesi e come tutti i Capi il Presidente ucraino non ha alcuna intenzione di essere un Ex. Potrebbe essere stato il sentore dell’imminente fine politica o la consapevolezza della irrilevanza nel dibattito sul futuro dell’Ucraina a spingerlo a forzare i toni proprio nel sancta sanctorum del potere americano: lo studio ovale della Casa Bianca. Di certo Trump, Vance e tutto l’establishment repubblicano non l’hanno presa bene, soprattutto quando Zelensky ha prospettato per gli Stati Uniti – per ora protetti dall’oceano- un futuro di insicurezza e debolezza qualora la Federazione Russa non fosse stata seriamente arginata o sconfitta.

A qualche giorno dai fatti appare sempre più evidente come Zelensky sia rimasto fermo alla puntata precedente della serie “Noi e l’Ucraina”. Nella prima serie i protagonisti al di là dell’oceano erano Biden e i neo-conservatori, sostenitori- senza se e senza ma – della strategia dell’overstretching Russia e certi del suo collasso finale. Si trattava in vero di una strategia che aveva preso le mosse già al tempo della presidenza Clinton e che si basava sull’idea che obbligando Mosca ad una serie di impegni eccedenti le sue capacità economiche e militari, questa avrebbe finito per implodere, magari dando vita a una sorta di big-bang post sovietico dal quale sarebbero nati altri piccoli e deboli stati, poveri e in perenne conflitto tra loro, di certo non più in grado di impensierire nessuno.

Per Biden e i neo-conservatori americani più che un sogno questo rappresentava l’obiettivo di lungo periodo su cui orientare le operazioni nel breve e medio termine. Da questo scenario è dunque derivata la narrativa che voleva la Russia inevitabilmente sconfitta dall’Ucraina alla quale l’Occidente non avrebbe mai fatto mancare il proprio aiuto finanziario e militare. A questo si aggiungeva l’atto di fede collettivo sull’efficacia mortale delle sanzioni occidentali le quali ne avrebbero accelerato il collasso economico-industriale russo, fomentato ampie rivolte interne, culminando con la cacciata di Putin.

Negli anni ’40 il disegnatore Gino Boccasile rappresentava un soldato italiano in prima linea che, allungando la mano nuda verso l’osservatore, chiedeva imperiosamente armi e munizioni per continuare a combattere e a vincere. Lo stesso ha fatto Zelensky fin dall’inizio della guerra. Badate bene, Zelensky e il governo ucraino erano nel loro pieno diritto se non addirittura nel dovere morale di chiedere aiuto a chiunque, diavolo compreso, pur di difendere il proprio paese invaso. Tuttavia questo non avrebbe dovuto offuscare Kiec dal vedere come la resistenza e la difesa del Paese fossero completamente nelle mani americane e in misura minore, europee.

Fin quando la narrativa generale americana ed europea ha continuato a cantare la sicura sconfitta russa, gli a-solo di Zelensky, s’inquadravano armoniosamente nella sinfonia generale. Ma quando a novembre scorso Trump ha travolto i Democratici insediandosi come 47° presidente degli Stati Uniti la musica è cambiata e di molto.

Preso atto che l’idea di far collassare la Russia era per lo meno prematura e guardando al fatto che, malgrado ingentissime perdite, Mosca era ancora in offensiva, Trump ha pensato bene di limitare i danni chiudendo velocemente quel fronte, intavolando trattative dirette con Putin, mollare l’Europa e tenersi pronto per il nuovo scenario indo-pacifico che Washington considera – a torto o a ragione – il cuore del problema di sicurezza nei prossimi 40 anni.

Come un musicista che ha perduto un foglio di partitura, Zelensky non si è però accorto del cambio di musica e ha continuato a suonare lo stesso motivetto che andava così bene ai tempi di Biden. Peccato che il direttore e lo spartito fossero cambiati. Tornato in patria qualcuno ha comunque fatto presente al Presidente che l’aria era cambiata e che se voleva rimanere a galla ancora un po’ doveva rapidamente scendere a più miti consigli. E così è stato. Zelensky s’è detto infatti pronto firmare qualunque accordo sulle terre rare gli fosse stato proposto dall’amministrazione Trump, che ci fossero o meno garanzie di sicurezza che per lui volevano dire missili, munizioni e aerei.

È possibile se non addirittura probabile che qualcuno a Kiev o a Londra gli abbia fatto presente che le garanzie che andava cercando erano proprio lì, all’interno del patto delle terre rare. Cosa proponeva infatti Trump? Basta cannoni, missili, HIMARS, F16 e copertura satellitare. Al loro posto gli USA avrebbero aperto una serie di imprese estrattive nel Donbas ucraino o in quel che ne restava e forse anche in quello occupato dei russi, immaginando che una volta avviati investimenti per milioni e milioni di dollari e con la presenza in loco di molto personale americano ben difficilmente la Russia avrebbe ripreso a sparare. A maggior ragione se le nuove imprese a stelle e strisce avessero generato profitti anche per Mosca oltre che per Kiev. Qui occorre una piccola precisazione, anzi due, ma procediamo per gradi.

Un contratto 50-50 tra Kiev e Washington è estremamente vantaggioso, ma per Kiev. Se guardiamo infatti ad altre concessioni simili in giro per il mondo chi ci mette i capitali, le apparecchiature, le infrastrutture , i mercati, il trasporto e il personale – in questo caso gli USA – entra con una quota che varia dal 70 al 90%. Nell’accordo proposto da Trump ogni 100 dollari di utili, 50 dovrebbero invece andare nelle casse di Kiev, e non è poco.

La seconda precisazione riguarda non solo le terre rare, ma anche l’intera rete infrastrutturale e produttiva ucraina. Con un accordo segreto (ma non così tanto) con la Gran Bretagna pre-Starmer, il presidente Zelensky si è impegnato a cedere gran parte della ricostruzione delle infrastrutture post-belliche del paese a Londra la quale sarebbe poi entrata come socio di maggioranza negli utili generati. E questo per molti decenni da oggi. Stati Uniti e Gran Bretagna si sarebbero quindi già divisi – favorevoli gli stessi ucraini – gran parte della nuova Ucraina post-bellica, almeno sotto il profilo economico e produttivo

Qualcuno si chiederà a questo punto cosa toccherebbe al resto dell’Europa in termini di rientro dalle ingenti spese sostenute. Poco o nulla. Poco se si è la Germania, la Francia o la Polonia. Quasi nulla se si è l’Italia.

Se la situazione è quindi di un leader nazionale che è ad un passo dall’essere buttato fuori da ogni trattativa; di due nazioni leader – USA e Gran Bretagna – che per un verso o per l’altro gestiranno a loro esclusivo vantaggio il dopo guerra; delle Russia che, almeno per qualche decennio, resterà là dov’è e magar riuscirà anche a cavar fuori da quella mezza vittoria ottenuta in Donbas molto più di quanto si aspettasse, in primo luogo la riammissione tra il ristretto consesso delle super-potenze, la fine delle sanzioni e, forse, un riequilibrio del suo rapporto con l’amico indefettibile, cioè la Cina. Se dunque la situazione è questa è lecito guardare a questa Europa come un fattore pertinente ed attivo della partita. La risposta è no e per una serie di motivi.

Il primo è la pochezza della classe dirigente europea e dell’entourage di consiglieri, advisor, consulenti ed esperti che la contorna. L’Unione Europea già di per se è un’istituzione gracile, cresciuta all’ombra degli USA e nell’umido della finanza, senza mai essere illuminata dal sole della politica. Se poi questa pianta viene data in mano non a sapienti giardinieri in grado di prendersene cura ma a una pletora di burocrati che vede il mondo solo in termini di dare e avere, di conti, interessi compositi e di miliardi, il risultato è quasi scontato.

Un’Europa di ragionieri che guarda sgomenta a quello che percepisce essere il primo, grande cambiamento mondiale, dalla caduta dell’Unione sovietica, ma che non riesce a interpretarlo in alcuna chiave politica, solo economica. Ecco allora il piano Van der Leyen da 800 e rotti miliardi. Qualcuno ha visto uno straccio di disegno strategico a medio lungo termine? A parte Macron che vede i russi già a Chamonix, qualcuno ha presentato ai popoli europei una realistica descrizione della possibile e probabile minaccia? No di certo. E in assenza di uno straccio di strategia quali tipi di armamenti si dovrebbero acquistare e da chi? E quali linee relative all’organizzazione delle forze dovrebbero essere seguite. Qualcuno ha poi fatto cenno a quali dovrebbero essere le priorità? Che ne so, puntiamo prima di tutto sull’Aeronautica oppure sui missili e aspettiamo per i carri armati o viceversa. Nulla. Il dilettantismo e la trascuratezza con cui si trattano le delicate questioni di sicurezza sono sconcertanti. L’unica cosa che si comprende è come in assenza di ogni forma di politica questa Europa è in grado solo di mettere mano al portafoglio; tanto per fare qualcosa.

Dietro ai vetri a specchio dei palazzi di Bruxelles si deve nutrire davvero una gran paura di questo termine – politica – visto che le strampalate decisioni vengono prese alla rinfusa volando sopra al parlamento europeo, ai governi nazionali per non parlare di un minimo coinvolgimento dei popoli d’Europa. Van der Layen & Co. sembrano, infatti, non sentirsi investiti di alcun mandato, ma piuttosto temporanei proprietari del vapore e perciò autorizzati a fare quel che meglio credono. In questo delirio di oche spaventate, ad esempio, ci tocca sentire l’Alto Rappresentante per la Politica Estera, Kaja Kallas che a Washington, tre giorni fa, ospite di un convegno organizzato dall’Hudson institute se ne esce con:”…se l’Europa non può sconfiggere la Russia, come può pensare di sconfiggere la Cina?

Sconfiggere? La Russia? La Cina? Ma qualcuno ha chiesto a questa intemerata signora in nome e per conto di chi sta parlando? Si rende forse conto la Giovanna D’Arco che Russia e Cina non sono nemici e che, soprattutto, hanno una scala di potenza superiore a quella europea di almeno due ordini di grandezza? E si rende conto che quelle parole in bocca ad un ministro degli esteri o suo simulacro sono una bestemmia? In apparenza no.

La possibile spiegazione di tutto questo – oltre alla pochezza della classe dirigente europea – è che oltre a non sapere cosa fare essa sia ancora rimasta al vecchio spartito, quello che vedeva la Russia implodere, l’Europa trionfare e l’Ucraina riprendersi tutto il maltolto. Insomma, Zelensky e Von der Leyen stanno cantando una canzone che neppure il maestro d’oltreoceano ha più nel repertorio. È tempo di ripensare con attenzione a che tipo di comunità vogliamo e possiamo permetterci e di che tipo di persone possono essere in grado di guidarla. Oggi siamo tutti seduti allegramente su questo pullman che, tornante dopo tornante, caracolla per una strada di montagna. Ah, dimenticavo, alla guida c’è uno scimpanzé.

BOMBA O NON BOMBA ARRIVEREMO A…

Armiamoci e aspettiamo; qualcuno, prima o poi, ci attaccherà.

L’8 marzo 1978 usciva “Sotto il segno dei pesci” di Antonello Venditti. Otto giorni dopo, in via Fani, le Brigate Rosse avrebbero rapito Aldo Moro restituendolo dopo 55 giorni: cadavere. Noi intanto si cantava “Gianna” o “Figli delle Stelle” e alle feste ballavamo i Bee Gees, cercando di stringere forte la più carina della compagnia. Ovviamente senza fortuna.

L’improvviso amarcord mi è scaturito ascoltando le ultime dichiarazioni di EuroUrsula sull’improcrastinabile necessità che si corra tutti rapidamente al cannone.

Indossato l’elmo chiodato e impugnato il gladio l’EuroUrsula ha annunciato “Hannibal ad portas”. Su chi fosse mai Hannibal, a quale porte si annunciasse e soprattutto quando non c’è stato comunicato, ma pazienza. C’è voluto Macron per spiegarci che Annibale erano le incolte orde cosacche che a breve avrebbero abbeverato i loro cavalli alla Senna. L’ultimo a farlo era stato lo zar Alessandro I nel 1814, ma, si sa, certi traumi, per citare ancora Venditti – “fanno dei giri immensi e poi ritornano”.  Ma per tornare alla primavera del ’78, vi ricordate “bomba o non bomba”? In quella 2025, ascoltando l’EuroUrsula siamo di nuovo a:”… Manca l’analisi e poi non c’ho l’elmetto“. In attesa che Amazon ci consegni il nostro elmetto personale, tentiamo dunque una breve analisi.

Punto primo: cosa ha proposto l’EuroUrsula? La vigente vulgata da bar sport ripete che Leuropa (no, non è un errore) caccerà 800 miliardi di euro per comprare i cannoni. Punto. In realtà EuroUrsula – nella sua immensa magnanimità e nel tentativo di salvare la vita ai cavalli cosacchi che qualora davvero si abbeverassero alla Senna rischierebbero un’epatite fulminante – ha tenuto a specificare quanto segue: Gli stati de Leuropa che – bontà loro – decidessero di dare una svecchiata ai loro arsenali potrebbero farlo anche sforando i vincoli di bilancio imposti. Insomma, è possibile profanare il Sacro Graal dei Vincoli e se volete comprare missili e aerei a debito, ebbene, fatelo pure tranquilli. Vi rimarrà certo il debito che finanzierete come al solito aumentando le tasse alla gleba oppure reperendo soldi freschi sul mercato emettendo buoni del tesoro. D’altra parte, non si servono pasti gratis, ma almeno Leuropa non imporrà di pagare la sovrattassa prevista dalla legge a carico dei ritardatari.

Ma non è finita qui. Rimarrebbero un 150 miliarducci che andrebbero a finanziare programmi d’armamento paneuropei, ad esempio sistemi di difesa contraerea di un certo valore oppure qualche satellite per la sorveglianza, sistemi trasmissivi etc. E non basta ancora. Ci sono sempre i fondi di coesione. Certo, i fondi di coesione erano stati pensati per ridurre le distanze economiche e di benessere tra i vari paesi che compongono Leuropa, ma, d’altra parte, vuoi mettere? C’è Annibale alle porte e gli assetati cavalli di Putin stanno già galoppando.

Questo, dunque, il piano di EuroUrsula: autorizzare a sforare i vincoli di bilancio, finanziare programmi intereuropei e attingere ai fondi di coesione per quel che manca. A patto che tutto sia riconducibile alla funzione difesa&sicurezza.

Da qualche parte qualcuno ha timidamente fatto presente che sarebbe stato utile poter sforare anche per la sanità o per il rinnovamento tecnologico delle industrie o per infrastutture, ma…Nein!! I più svegli stanno comunque già pensando di passare una mano di grigio-verde sugli apparati per TAC, mettere sacchetti di sabbia davanti a pronto-soccorso e di montare una torretta sugli scuolabus che per l’occasione non saranno più gialli, e ovvio.

Il secondo elemento di riflessione riguarda i tempi del risveglio. Sarà stata forse la primavera ma fino a due mesi fa, con i russi sempre in offensiva su Petrowsk, Zelensky sempre in felpa simil-decathlon e EuroUrsula sempre in impeccabile messa-in-piega, nessuno sentiva l’esigenza pressante di far debiti per comprare armi. Certo, Leuropa ad ogni pié sospinto ripeteva il mantra “L’Ucraina trionferà, la Russia sarà sconfitta e saranno ripristinati i confini del 2014” , ma a parte, una consistente bonifico di miliardi a Kiev, la donazione di ogni ferraglia d’arsenale ancora giacente nelle quasi deserte armerie di casa e la liturgica ripetizione del Canto di Vittoria, la furia nibelungica del Vecchio Continente finiva qui.

Nel frattempo sono arrivati Donaldo e Elonio i quali, senza tanti giri di parole, c’hanno dato gli otto giorni. “o vi date una mossa e vi adeguate al programma, o sono affari vostri! Anzi, da oggi in poi saranno dazi vostri”. Questo il nient’affatto ermetico messaggio.

In quel momento i sogni di EuroUrsula, popolati di tappi verdi attaccati alle bottiglie e automobiline elettriche che nemmeno la polistil, s’è svegliata sudata e trafelata con un orribile dazio che l’osservava maligna dalla testiera del letto. Come tutti quelli che si svegliano d’improvviso s’è guardata intorno disorientata, sperando che qualcuno gli dicesse cosa pensare. E l’ha trovato. Ha riascoltato le parole di Donaldo e ha marzialmente ha risposto “Signorsi”.

Quel signorsì ha forse momentaneamente tranquillizzato Donaldo che non vedeva l’ora che la solerte EuroUrsula dirottasse una buona parte di quei fondi verso la già straripante industria bellica americana. D’altra parte, Donaldo l’aveva promesso: “Make America great aganìn” e chi se ne frega se dall’altra parte dell’oceano Leuropa poteva calzare un cappellino con scritto “Make Europe Poorer”.

Intendiamoci, dopo oltre trent’anni di missioni di pace, di peacekeeper, di pacchi viveri e di sorridenti soldati che regalavano mazzi di fiori c’era bisogno che qualcuno ricordasse che un esercito serve, sostanzialmente, per combattere e vincere una guerra. Per servire pasti caldi c’è la Caritas. Tuttavia, un simile mutamento di fronte avrebbe avuto bisogno di un’approfondita, dettagliata e soprattutto onesta analisi della minaccia da fronteggiare e con quale priorità. Abbiamo paura del terrorismo islamico? Dei pirati cibernetici? Dei migranti usati come armi? Dei cosacchi? Bene. Una volta stabilito qual è la minaccia comune – tenete a mente l’aggettivo – più pressante e più pericolosa si sarebbe dovuto stabilire che cosa fare, a chi farlo fare e in che tempi. Nulla di tutto questo. Stante all’idea di EuroUrsula ogni stato de Leuropa dovrà invece compilare la sua lettera a babbo natale scrivendo cosa desidera. Un portaerei? Un scatola di elicotteri? Un migliaio di carri armati? A quel punto dovrà cacciare i soldi e comprarli, a debito preferibilmente al negozio di Donaldo che ci ha chiesto proprio questo: comprate tante belle cose nuove e compratele da me.

Ad essere maliziosi viene poi un pensiero. È chiaro che presentarsi al proprio elettorato che sia italiano, francese, spagnolo o britannico spiegando che questo e quello non si potrà più fare perché s’ha da comprare la portaerei nuova non susciterà scene di delirante entusiasmo, tutt’altro. Una simile politica indebolirà qualsiasi classe politica dovrà bere l’amaro calice con il risultato che Leuropa – sommatoria di ogni debolezza nazionale – sarà ancora più debole e, se fosse possibile, insignificante.

Ma chi ci vuole male fino a questo punto? Semplice: Donaldo.

L’ha anche detto in ripetute occasione tacciandoci si approfittatori, sfaticati, truffatori etc. Quello che più infastidisce Donaldo e metà dell’America che lo segue non è però la ritrosia europea a spendere quanto il modello di vita europeo. Un modello dove la sanità pubblica esiste, la scuola pubblica esiste ed è tutto sommato buona, le università aperte a tutti sfornano ancora premi Nobel, dove la gente in pensione mediamente campa ancora decentemente. Insomma, l’Europa è un modello antagonista all’America e questo Donaldo non lo può tollerare. Soprattutto non può tollerarlo ora che s’è reso conto che l’onnipotenza del paese dei liberi e dei forti non è così onnipotente come credeva e che prima o poi dovrà fare i conti con gli altri stati-civiltà. Cina in prima battuta. Leuropa con i suoi 500 milioni di ricchi e vecchi abitanti, pieni di risparmi custoditi nelle banche e privi di una qualsivoglia guida politica potranno prima essere spolpati e quindi abbandonati al loro destino.

Torniamo per un attimo alla questione del riarmo perché non è certo finita qui. Come avvenuto per il Covid 19 la risposta europea è sempre la stessa: cacciamo i soldi e superiamo l’emergenza. Giusto, ma non sufficiente.

È vero che occorre comunque spendere, ma occorrerebbe altrettanto agire anche nella direzione dei cittadini che ora abitano Leuropa ponendogli una semplice domanda: “tu saresti disposto a farti ferire, amputare o morire per gli ideali de Leuropa? Saresti poi disposto a uccidere in nome e per conto de Leuropa”. Bella domanda. Provate a farla in una qualsiasi classe delle superiori e vedrete la risposta. Occorre infatti riflettere innanzi tutto su noi stessi, su cosa siamo davvero, sul nostro grado di coesione, su quale sia il sistema valoriale ammesso che ne abbiamo ancora uno. Teniamo conto 11,2 milioni di ragazzi residenti nell’Unione Europea soffrono di disturbi psichici e che nella fascia di età compresa tra i 15 e i 19 anni, circa l’8% soffre di ansia e il 4% di depressione. Dopo gli incidenti stradali, il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani e questo non lo dico io ma il rapporto dell’Unione Europea “ The State of Children in the European Union 2024”. Del fattore-uomo però non si parla, o per lo meno non se ne parla ancora.

Se poi guardiamo a cosa c’è rimasto in dispensa dopo trent’anni di peacekeeping, tagli alla difesa e giuste elargizioni all’Ucraina c’è davvero da spaventarsi. Consiglio la pallosissima lettura dell’accuratissimo rapporto del Kiel Institute tedesco sullo stato degli armamenti nell’UE. Scopriremo di avere una forza corazzata complessiva ridicola rispetto a quella russa, marine piccole ed efficienti ma ormai logore, un’aeronautica eccellente dal punto di vista tecnico ma piccola e uomini ormai vecchi. In Italia l’età media dei soldati è di 37,8 anni. Ed è la media. Su questa realtà Macron e Starmer vorrebbero costruire una forza di 100.000 uomini da spedire nella steppa ucraina. Perché non 200.000?

L’altro mantra che sembra ora pronto a sostituire quello sulla immancabile vittoria ucraina riguarda l’esercito comune europeo. Come l’araba fenice “che esiste ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”.

Certo che non c’è e non ci potrà mai essere, almeno finché non ci sarà un governo comune, un parlamento comune, un corpo giuridico comune, un sistema sanitario comune, una tassazione comune, una politica estera comune. In altri termini uno Stato. Senza Stato, che sia federale, confederale, centralizzato, autonomo, sotto forma di regno o di teocrazia, non c’è esercito. Inutile parlarne ancora. Si potrebbe invece parlare e con maggiore realismo del rafforzamento del “pilastro europe della NATO”. Quella si che c’è e da quasi ottant’anni. Si obietterà che nella NATO Donaldo è il socio di maggioranza, ma davvero Leuropa pensa di avere ora o in futuro uno spazio autonomo e d’indipendenza rispetto al Ciuffo biondo che fa impazzire il mondo? Tanto vale far buon viso a cattivo gioco e intanto irrobustirsi utilizzando quello che già esiste – la struttura politico militare della NATO – e andare avanti.

Tante domande quindi, molte della quali non sono neppure state poste, preferendo porre l’orecchio al rombo degli zoccoli dei cosacchi che caracollano verso Parigi. A Roma direbbero: “Core de mamma, magna tranquillo!

LA PIU’ BELLA DEL REAME

Perché l’Europa sembra contare come il 2 di coppe quando la briscola è a denari.

Quello che sta venendo a galla con la presidenza Trump più che una modifica di una politica è l’esaurirsi di un lungo ciclo storico.

L’America sembra, infatti, aver smesso di vedersi come un impero e fatica sempre più a comportarsi come tale. Al contrario Trump con i suoi variopinti, multiformi e numerosi seguaci, si interpretano come Grande Nazione: la più grande del mondo, certo ma con i limiti che l’essere nazione e non più impero comportano.

Sotto lo sgualcito Boss of the Plain e con al fianco uno dei revolver di Samuel Colt, lo sguardo dell’America sembra rivolto di nuovo alle praterie e alle Montagne Rocciose. I tempi della costante espansione della bandiera a stelle e strisce verso l’esterno sembrano finiti così come il controllo militare, economico e valoriale verso l’esterno e l’assimilazione di quell’esterno a sé. Badate bene, non è che l’America si sia ritirata dalla competizione mondiale, tutt’altro, solo che vuole giocarsela senza avere la responsabilità e il peso delle decine e decine di clientes che in settant’anni ha racimolato in giro per il mondo.

È la fine di un ciclo politico-strategico che inizia ai tempi di Wilson[1], il presidente della prima guerra mondiale, e arriva fino a Biden, passando per Kennedy, Reagan, Bush – padre e figlio – e da ultimo Obama.

Quello di Trump è il ritorno alla “fortezza America” dei tempi del presidente McKinley; uno stato-continente che accoglie ma poi obbliga all’assimilazione nel modello protestante e anglosassone.

Alla luce di questa impronta culturale e quasi etnica le dichiarazioni del presidente Trump riguardo al Canada come possibile 51° stato dell’Unione o della Groenlandia come pertinenza territoriale statunitense sono meglio interpretabili. Il Canada è infatti un’estensione oltre il confine settentrionale della popolazione bianca e protestante degli USA; insomma i canadesi sono quanto di più simile ad un americano si possa trovare da quelle parti. La Groenlandia è invece assimilabile per il semplice fatto di essere disabitata.

Il Messico, così vicino e popoloso così come gli altri paesi dell’America latina, al contrario, non hanno alcuna attrattiva in quanto, appunto “latinos” e come tali non assimilabili al modello WASP. Peggio, i latinos sono potenziali portatori del batterio della sostituzione invece che dell’assimilazione.

Piazza San Pietro (Roma) Monumento ai migranti – Particolare. (foto P.Capitini)

Tra una chiamata alle armi di Macron, una video conferenza tra amici e una riunione di qualche comitato europeo, quello che si deve constatare è che le classi dirigenti europee che saltellano di fronte all’incurante sguardo del Donald sono figlie dell’America di Wilson in tutte le sue declinazioni e non capiscono per nulla questa che gli sta abbaiando addosso. Le élite europee sono spiazzate in quanto frutto della fase storica precedente, quella dell’America globale e imperiale. Quella di Clinton per intenderci.

Lumaca con bossolo al poligono di Candelo Masazza (Biella) – Foto P.Capitini

L’attuale amministrazione americana non ha dunque alcun interesse a mantenere i rapporti con questa classe dirigente europea che considera e percepisce come altro-da-sé. Al contrario, sta lavorando per favorire ogni movimento politico e sociale che riconduca il Vecchio Continente ad una narrativa più simile a quella americana.

Museo dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle – Roma (foto P.Capitini)

Ecco dunque il sostegno aperto di Elonio – che caspita di nome – alla tedesca AfD, il rammarico per la mancata elezione del nuovo presidente rumeno, il sostegno aperto al governo italiano e al Front National di Marie Le Pen così come lo scioccante discorso di pochi giorni or sono del vice presidente Vance alla 61ª Conferenza di Monaco sulla sicurezza. In questo nuovo scenario l’amministrazione Trump intente relazionarsi all’Europa con un modello bilaterale dove, giocoforza, gli USA sarebbero sempre e comunque prevalenti e in aggiunta intende disporre di interlocutori europei, per così dire, trump-compatibili.

La fortezza America ha dunque preso coscienza del fallimento dell’idea globalista del secolo americano che ha sostenuto tutte le amministrazioni dalla caduta del muro di Berlino fino a poco tempo fa. In altri termini l’America si è resa conto di non aver forze a sufficienza per essere l’unica potenza mondiale e che, al contrario, questa iper-estensione, la stava portando al collasso economico prima che militare e politico.

Nel frattempo si è resa conto che la Cina da docile “fabbrica del mondo” era diventata se non ancora il nemico almeno il principale competitore e che la Russia, in qualche modo sopravvissuta al terrificante decennio eltisiniano, non solo non si era dissolta, ma dava anche segni di ripresa, reclamando a gran voce – sempre inascoltata – di voler rioccupare il posto che credeva le spettasse tra le grandi potenze planetarie.

Elicottero Super puma francese in volo sul Ciad (foto P.Capitini)

È bene al riguardo ricordare come dal 1999, quando Vladimiro salì al potere, la Federazione russa persegue con costanza tre linee strategiche. La prima è di restaurare e consolidare la sua influenza nell’ambito dello spazio ex-sovietico, includendo in questo non solo i giganteschi “stan” dell’Asia centrale o il turbolento Caucaso, ma anche quello occupato dagli stati dell’Europa orientale nel frattempo divenuti membri della NATO e della UE. Mi riferisco a quello che la buon anima di Gianfranco Funari indicava in litania ponendo l’accento sull’ultima sillaba: la Polonìa, l’Ungherìa, la Romanìa, la Bulgarìa e … via dicendo. La seconda linea vuole contenere l’espansione della NATO a oriente che da Mosca, a torto o a ragione, è percepita come una minaccia incombente e mortale non solo alla sicurezza dello stato, ma alla sua cultura e alla sua storia. La terza linea strategica vuole infine far tornare la Russia a giocare un ruolo rilevante non solo nel rapporto con gli USA, ma anche con i diversi poli che in questi 20 anni di ipertrofia statunitense si sono comunque sviluppati. Si parla certo di Cina e di India, ma anche di altri paesi dei BRICS e non ultima dell’Africa.

Sant’Oreste – Monte Soratte (Roma) Interno del Bunker Soratte (foto P.Capitini)

Se dunque gli Stati Uniti si scoprono Fortezza America delineando con chiarezza la loro zona di influenza esclusiva, come possono negare ad altri di volerne o mantenerne una loro? Peraltro dopo un’iniziale anarchia in cui Stati grandi o piccoli hanno sgambettato per ricavarsi un loro spazio indipendente sta emergendo chiaramente l’addensarsi di molti di essi attorno a poli ben precisi la cui massa di attrazione è rappresentata da quelli che possono essere definiti come “stati-civiltà”. Ecco quindi gli USA essere lo stato polarizzatore della civiltà occidentale; liberista, democratica, capitalista e individualista accanto ai quali si pone però lo stato-civiltà cinese o quello indiano senza trascurare potenze di seconda o terza fascia, come, ad esempio la Turchia o l’Iran.

Cesano – Scuola di Fanteria (Roma) Poligono in galleria (foto P.Capitini)

Cos’è dunque uno stato-civiltà? Sono gli stati possessori di una propria cultura, di un proprio modo di stare nel mondo e di definire con chiarezza e perseveranza il posto da essi occupato nel contesto mondiale. Sono quelli che possiedono una loro visione strategica, avendo una idea ben chiara del loro futuro o, se si preferisce, del loro destino. Sono soprattutto quelli che alla luce di tutto questo sono capaci di azione per modellare gli spazi del mondo adattandoli alla loro visione.

Obice 155 mm francese “Cesar” (foto P.Capitini)

In questa visione non è compresa l’Europa, né tantomeno l’Unione Europea, per il semplice fatto che essa non ha alcuna delle caratteristiche appena richiamate. Cosa diversa è e soprattutto è stata per gli Stati e le nazioni che la compongono. Si tratta però ormai di storia, anche gloriosa, che non ha più la vitalità indispensabile per poter agire nel contesto attuale. L’Europa in quanto tale non è infatti mai stata un soggetto politico cioè un’entità capace di individuare autonomi interessi, stabilire linee di azione strategiche proprie per perseguirli, individuare e reperire i mezzi necessari e infine attuarle.

Si dice che tutti i nodi, prima o poi, vengono al pettine. Quello europeo ha iniziato ad aggrovigliarsi la notte di natale del 1991 quando la bandiera con Falce e Martello venne ammainata per l’ultima volta dalle cupole del Cremlino.

Quell’atto aveva fatto calare il sipario su gran parte del ventesimo secolo. La rivoluzione del 1917, la vittoria sul nazismo, il primo uomo nello spazio, i Gulag, i carrarmati a Budapest e a Praga, il muro di Berlino, l´Afghanistan: tutto spazzato via. Anche l’importanza dell’Europa occidentale che per cinquant’anni era stato il frutto conteso tra USA e URSS. Per lei e per garantirsi la sua fedeltà l’America aveva avviato il piano Marshall, inviato una flotta permanente nel Mediterraneo, riempito i suoi territori con oltre 100.000 soldati e speso un’enorme quantità di denaro. Aveva anche fondato un’alleanza – la N.A.T.O. – il cui unico scopo era porre il continente europeo sotto l’ombrello atomico di Washington scoraggiando così Mosca dal compiere anche il più piccolo passo in avanti rispetto alle posizioni concordate a Yalta nel febbraio del 1945.

Secondo una definizione di quegli anni la NATO serviva dunque a tenere “Gli americani dentro, i tedeschi sotto e i russi fuori. E c’è riuscita. Non solo per merito suo ma soprattutto grazie a cinquant’anni di guerra cognitiva rivolta al vecchio continente affinché non solo abbandonasse la secolare abitudine di scatenare guerre al suo interno, ma che non avesse mai più la forza di accendere fuochi mondiali come era accaduto nel 1914 e poi nel ’39.

Point-du-Hoc , Normandia (Foto P.Capitini)

Visto dalla prospettiva del 2025 si deve dire che il compito è stato assolto. Non solo non sono più state combattute guerre in Europa occidentale, ma la stessa idea di combattere è stata espunta dalle coscienze dei sui quasi 500 milioni di abitanti che hanno preferito concentrarsi sull’essere una potenza economica piuttosto che politica e tanto meno militare. A questo avrebbero pensato gli Stati Uniti. Peccato che con la fine dell’URSS e dopo la presa di coscienza che la Federazione russa, sebbene le sue 4600 testate atomiche, non sarebbe più tornata ad essere l’Unione Sovietica di Stalin l’Europa è divenuta sempre meno importante negli equilibri mondiali e sempre più pericolosa nella competizione economico-finanziaria con gli Stati Uniti.

Carro Sherman a Saint-Marie-Eglise – Normandia (Foto P.Capitini)

Per concentrare la riflessione ai soli aspetti militari e di difesa, la N.A.T.O. dei tempi del Dottor Stranamore ha perso ogni significato e, dopo aver perso la partita di aggiramento della Federazione russa con la perdurante guerra in Ucraina, stenta a trovarne uno nuovo.

In molti ambienti americani si inizia a parlare di NATO-Silente, una sorta di Alleanza à-la-carte da attivare in caso di bisogno. Per il resto ognuno per sé e dio per tutti. L’inutile e improduttivo ruolo auto-assunto di guardiano del mondo a Washington è costato molto; troppo e Donaldo insieme a Elonio non intendono continuare a pagare il conto.

D’altra parte anche Obama aveva iniziato a spingere in tal senso se pur in modi decisamente più garbati e forse per questo inascoltati. Trump, con la sua delicatezza da buttafuori di locali di terz’ordine, ha annunciato di voler ridurre del 50% le spese militari americane e contemporaneamente presenta il conto a tutti i commensali. All’Ucraina con un accordo capestro sulle risorse del paese e facendo ingollare una immeritata resa dopo tre anni di guerra; all’Europa imponendo o minacciando dazi e ordinando – non più chiedendo garbatamente– l’aumento della spesa militare al 3 o al 5% del PIL, naturalmente rivolgendo questo flusso miliardario in euro all’industria militare americana.

Stretto dei Dardanelli (Turchia) (Foto P.Capitini)

Dietro questa sguaiata retorica si intravede però un disegno politico che neppure la rozzezza di Donaldo e le fantasie marziane di Elonio possono camuffare.

La prima linea strategica intende mantenere in mano americana la stessa capacità militare dei bei tempi della guerra fredda cedendo però al “pilastro europeo” l’intera responsabilità della difesa del suo continente e delle relative spese. È ovvio che Washington conserverà la leva dell’utilizzo, se necessario, del potere bellico dell’intera Alleanza, magari in Medio oriente o nell’Indo-pacifico, chissà.

La seconda linea è connessa alla prima. In un continente in crisi economica per gli effetti suicidi della politica energetica imposta dall’amministrazione Biden con il corollario delle sanzioni oggi arrivate al sedicesimo pacchetto; con l’industria europea che è quasi ferma anche a causa delle politiche all-green degli ultimi anni e con una classe politica ai minimi in termini di fiducia e capacità, l’aumento delle spese militari rappresenterebbe un potentissimo detonatore sociale a tutto favore di quei movimenti nazionalisti, sovranisti e conservatori così cari alla  nuova amministrazione a stelle e strisce. Insomma indebolire e impoverire l’Europa anche attraverso lo strumento della spesa militare per marginalizzarla definitivamente, concedendo a Washington mano libera nel tentativo di sedurre Mosca perché tradisca il suo matrimonio – in verità mai d’amore – con Pechino.  Vedremo come andrà a finire. Per ora ci sentiamo come la ragazza più bella della festa che invecchiando nessuno invita più a ballare.


[1] Thomas Woodrow Wilson (Staunton, 28 dicembre 1856 – Washington, 3 febbraio 1924) è stato un politico statunitense, 28º presidente degli Stati Uniti dal 1913 al 1921.