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IO SO CHE TU SAI CHE IO SO

Salve professor Falken, strano gioco; l’unica mossa vincente è non giocare!” Così rispondeva Joshua, il mostruoso computer del NORAD, a pochi istanti dall’apocalisse nucleare. Il film era “Wargame”, gli anni quelli di Reagan e de “l’impero del male”. Da allora sono trascorsi quasi quarant’anni durante i quali in pochi avranno pensato realistico evocare il fantasma nucleare sull’Europa. L’ha fatto Vladimir Putin, presidente della Federazione russa, alle prese in questi giorni con l’incerto andamento della sua guerra contro l’Ucraina. Il 24 febbraio, un giovedì qualsiasi è arrivata infatti la guerra; quella vera. La paura di un nuovo conflitto mondiale, l’inverno nucleare, la possibilità di una prossima fine del mondo hanno interrotto la zuffa epidemica alla quale, dobbiamo confessarcelo, c’eravamo anche abituati. Ma se ci si ferma a riflettere scopriremo che, paradossalmente, è stata proprio la paura, anzi il terrore a garantirci il più lungo periodo di pace nella storia dell’uomo. Certo dalla fine della 2^ guerra mondiale di crisi globali e guerre locali ne abbiamo avute tante, qualcuno dice più di cinquecento, ma mai siamo stati davvero sul punto di giocarci la vita dell’intero pianeta e credo che, malgrado le truculente descrizioni della TV di stato russa, non lo siamo neppure questa volta. Tuttavia una remotissima possibilità rimane; laggiù, nell’Ade dell’inimmaginabile ma pur sempre reale, vediamo quindi come siamo arrivati a questo punto.

Nei diecimila anni della storia della guerra ci sono due date che faremo bene a ricordare perché è a partire da quei due giorni che l’umanità ha davvero avuto la concreta possibilità di estinguersi per un atto volontario. La prima è il 6 agosto 1945, un lunedì, quando alle 8,15 gli americani annunciarono al mondo e a 150.000 ignari giapponesi di avere il monopolio della morte nucleare. L’altra è un altro lunedì di quattro anni dopo, il 29 agosto 1949, quando a Semipalatinsk, nel remoto Kazakistan, i russi fecero esplodere la loro prima bomba atomica, annunciando che il monopolio era finito. Da quel momento inizia la costruzione dell’equilibrio di terrore tra le due superpotenze, un equilibrio basato su una certezza: mai, in ogni momento, in qualsiasi circostanza un attacco nucleare portato dall’uno contro l’altro avrebbe garantito una vittoria che avesse un minimo di senso. Per decenni e ancora oggi si è trattato quindi di conservare un equilibrio dinamico dove ognuna delle parti ha cercato di aprire uno spiraglio a quell’impossibile vittoria; spiraglio rapidamente chiuso dall’antagonista di turno attraverso l’introduzione di nuovi armamenti, più precisi, più letali e più numerosi. E via così.

Si era iniziato negli anni ’50 con i bombardieri strategici, aerei in grado di trasportare in qualche ora una bomba atomica sul territorio del Nemico. I missili a quel tempo erano ancora troppo rudimentali, troppo inaffidabili e troppo imprecisi per affidare loro una missione così definitiva. Ci vollero gli anni ’60 perché sia la Russia sia gli Stati Uniti arrivassero a costruire missili che fornissero una certa garanzia. Ad arrivare per primi furono i russi che tirarono fuori l’R-7 Semiorka, un mostro di 280 tonnellate alto 30 metri capace di trasportare una testata atomica a 9.000 chilometri dal luogo di lancio con la precisione di qualche chilometro. Gli americani risposero con l’ATLAS che di tonnellate ne pesava la metà ma arrivava a 18.000 chilometri e via così per tutti gli anni ’60 e ’70. Sono gli anni dei MINUTEMAN, dei JUPPITER e di un’intera famiglia di missili russi dai nomi impronunciabili che sostanzialmente davano vita a due famiglie diversi: i missili balistici e quelli da crociera o “cruise”, per dirla all’americana. Si trattava e si tratta ancora di armi completamente diverse. I primi, i missili balistici si comportano come un sasso lanciato lontano. Hanno cioè una traiettoria balistica con un tratto ascendente; un vertice , di solito ben fuori dall’atmosfera, e un tratto discendente che termina sull’obiettivo. Poche o nulle le possibilità di modificare la traiettoria. Un cruise è un’altra storia. E’ sempre un missile ma somiglia e si comporta come un aereo. Il suo volo all’interno dell’atmosfera è programmabile e anche largamente modificabile. fino al punto di impatto. Dopo questa necessaria precisazione torniamo ai missili.  Per mantenere l’equilibrio non bastava avere missili intercontinentali in grado di annichilire il Nemico, il suo esercito e le sue città. Bisognava prima essere certi che il Nemico che volevamo annichilire non fosse in grado di distruggere i nostri missili prima che noi distruggessimo i suoi.  In altri termini oltre a possedere un missile micidiale bisognava disporre anche di un luogo dove custodirlo e che fosse a prova di bomba. E’ questa l’epoca delle grandi basi missilistiche tanto care alla cinematografia degli anni ’70. Enormi silos di cemento armato e acciaio, sperduti nelle praterie americane o nelle steppe sovietiche, centri comando a centinaia di metri sotto terra, recinzioni e aree riservatissime. Ed è tutt’oggi ad esempio per la Russia che affida a missili balistici intercontinentali gran parte delle circa 4.477 testate nucleari di cui si stima disponga (stime 2022). I siti di lancio fissi sono visibili dallo spazio, e le loro attività, anche lo sfalcio dell’erba sono monitorate secondo per secondo offrendo così la reciproca e quotidiana possibilità di sapere se il mio Nemico anche oggi ha deciso di regalarsi un giorno di vita oppure sta facendo qualcosa di inatteso e preoccupante. In questo caso reagirò immediatamente, lui se ne accorgerà subito e probabilmente si tornerà nella normalità il più presto possibile. Tutto risolto? Certo che no. Ad entrambi le potenze atomiche era infatti venuto in mente che, in fondo, questi missili potevano essere lanciati anche da un treno o da un camion piuttosto robusto. Come si fa a tenere sott’occhio ogni camion e ogni treno dalla Siberia alla Montagne Rocciose? A quel punti l’equilibro sarebbe stato troppo dinamico e la possibilità che qualcuno ne approfittasse troppo alte. Che fare? Semplice, si rilancia con qualcosa di ancora più difficile da individuare; un sottomarino a propulsione nucleare, ad esempio. Un battello da un miliardo di dollari in grado di navigare in immersione per mesi e di arrivare così vicino alle coste nemiche da non dar tempo neppure di recitare l’ultima preghiera. Sul finire degli anni ’70 si era quindi composta quella che ancora oggi è definita come la “triade nucleare”, formata da bombardieri strategici, missili intercontinentali e sottomarini nucleari. Anche la triade merita una veloce riflessione. Se un bombardiere che trasporta qualche ordigno nucleare impiega infatti qualche ora per raggiungere il punto di rilascio e lo stesso per un sottomarino, allora posso anche avere il tempo per tentare di far rientrare la crisi, di cercare una soluzione o di convincere il Nemico che si fa sul serio. Basta un messaggio all’ultimo secondo e il bombardiere, con un’elegante scivolata d’ala, rientrerà alla base e il sottomarino potrà invertire la rotta. Insomma nella triade bombardieri e sottomarini permettono di spaventare a morte ma anche di fermarsi prima dell’irreparabile. Il missile invece non dà tempo. Una volta che l’autorità suprema ha deciso di lanciarlo e la sequenza di lancio sarà ultimata decollerà e arriverà sul bersaglio in meno di un’ora, senza possibilità di ripensamento. E’ l’arma definitiva. Si potrebbe ora discutere di missili a combustibile solido o liquido, di missili cruise, di MIRV e di sistemi di guida a mappatura stellare. Argomenti tutti interessantissimi che però rischiano di distogliere il ragionamento dal suo punto cruciale. Siamo noi in grado, o meglio, sono in grado i decisori ultimi di provare il necessario terrore che gli impedirà anche il solo pensare a ricorrere all’arma nucleare? In fondo la costruzione di missili nucleari tattici, cioè meno potenti, l’invenzione delle testate multiple e indipendenti, i sistemi di guida in grado di colpire con una scarto di qualche metro non risolvono la questione. Chi decide ha o non ha la percezione intima di cosa sta facendo? Avverte una salvifica paura? Si entra qui nel campo della fede che nessuna procedura di sicurezza, per quanto accurata e testata, può rendere una certezza. Vorrei pensare che ogni volta che una delle potenze atomiche ha forzato la mano agitando la sua valigetta nucleare lo ha fatto solo per ricordare a tutti che è necessario avere paura e di conseguenza scegliere un’altra strada. Si è accennato qui alle potenze atomiche, ma quante sono e soprattutto, ci si può fidare? Decidete voi. Della Russia e degli Stati Uniti abbiamo già parlato; ad essi da anni si è affiancata la Repubblica Popolare Cinese che da non molto, grazie ai sottomarini classe Shang, dispone anch’essa della triade nucleare così come Francia, Gran Bretagna, India e Pakistan. Israele e Corea del Nord completano il club, ma non dispongono di sottomarini in grado di rilasciare missili balistici nucleari. Ciascuna di queste nazioni ha la possibilità di condurre o di reagire a una guerra nucleare il che le rende completamente diverse da tutte le altre, sia nella politica, sia nella considerazione del loro collocarsi nel consesso mondiale.

Alla luce di questa panoramica come si inquadrano duque le parole di Putin circa armi terribili e mai viste? In larga parte si tratta, come è ovvio, di propaganda. È propaganda infatti l’ultimo missile RS-28 “SARMAT”, che la NATO denomina “SATAN”. I russi, in base ai nuovi obblighi del Trattato START, hanno infatti adeguatamente informato gli Stati Uniti del test e gli USA hanno monitorato il collaudo del missile russo con due aerei RC-135S Cobra Ball. Questi aerei dispongono di apparecchiature specializzate per tracciare questi tipi di armi e raccogliere dati di telemetria e altri dati di intelligence elettronica, nonché immagini visive. Dunque il lancio avvenuto il 20 aprile 2022 alle 15:12 (ora di Mosca) dal cosmodromo di PLESETSK nella regione di ARKHANGELSK era perfettamente noto. Così come è noto che il SARMAT è stato lanciato con successo da una postazione fissa terrestre e che le attività di collaudo del lancio sono state completate con successo con le testate multiple di addestramento che hanno colpito obiettivi nel poligono di addestramento di KURA nella penisola di KAMCHATKA. Si sa anche che nella base missilistica di UZHUR, nel territorio di KRASNOYARSK, sono in corso i lavori per preparare il reggimento missilistico locale al nuovo sistema d’arma che sostituirà il più anziano R-36M “VOEVODA” dell’era della Guerra Fredda.

Non c’è da preoccuparsi dunque. In realtà qualche motivo di preoccupazione lo si potrebbe avere e riguarda la famiglia delle cosiddette “armi ipersoniche”. Si tratta di missili che si muovono nell’atmosfera ma ad elevatissima velocità – si parla da mach 5 a mach 25 – che tradotto in chilometri all’ora, per chi riesce ad immaginarlo, sarebbero da 6.000 a 30.000 km/ora. A quelle velocità il tempo di volo e anche la capacità che questi missili hanno di cambiare traiettoria rendono la loro scoperta e il successivo abbattimento quasi impossibile. Ecco quindi che sono armi che rompono quell’equilibrio dinamico a cui si è sempre accennato. Oltretutto Russia e Cina, competitori primari degli Stati Uniti, sono molto avanti in questo settore sebbene Washington abbia investito moltissimo per ristabilire l’equilibrio e, magari, spostarlo a suo favore. Si tratta dunque della solita meccanica di azione e reazione che da settant’anni regola gli equilibri in questo pianeta. Reggerà per sempre o da qualche parte c’è già un dottor Stranamore pronto a tentare il colpo, magari di lunedì, magari d’agosto. Vedremo.

UNA CROCIERA IMPOSSIBILE

Viaggio di un veliero tra le montagne d’Appennino.

Dove nasce un libro non lo so. Il mio stava nascendo nella cucina di Mirko. L’argomento – come capita ai miei lavori – sarebbe stato di quelli che per essere affrontati, avrebbe avuto bisogno di applicazione, di studio e di tempo, ma di poca fantasia; molto poca.

Una tazza di caffè e quel che rimaneva di una Sacher erano stati i muti testimoni delle sue prime righe, ma prima di cercare e confrontare, di scrivere e stracciare avevo avvertito il bisogno d’aria; quella fresca del mattino e di pioggia leggera e questo piccolo borgo dell’Appennino ligure offriva entrambe.

A Prato Sottolacroce, frazione di Borzonasca, mi avevano condotto le vele impolverate della Soleil Royal. Quella vera l’avevano varata a Brest, in Bretagna, il giorno di Santa Lucia del 1669 ed era stata affondata ventitré anni dopo, di fronte a Cherbourg, il 2 giugno 1692. Della nave ammiraglia del Re Sole sarebbe scampato un solo marinaio.

Come passaggio io mi ero dovuto accontentare di una bellissima replica che Mirko aveva scovato a Roma pregandomi di ritirarla per lui da un modellista in zona Ottavia, dalle parti di via Trionfale; una delle zone meno marinare o bretoni di Roma. Al contrario il tempo che avevo incontrato durante il viaggio era stato molto normanno. Pioggia scrosciante e veloci nuvoloni neri mi avevano accompagnato da Firenze fino a Borgo val di Taro e da lì fino al passo del Bocco ed oltre. Dopo un’interminabile serie di curve e controcurve ero finalmente attraccato sul bel tavolone vicino al camino dove la Soleil Royal avrebbe calato l’ancora a babordo della HMS Victory e guardando la San Felipe al mascone di dritta.

Preso il caffé, assaggiata la Sacher e prima di decidermi a prendere tra le mani i dolorosi giorni della guerra russo-ucraina m’era sembrata una buona idea uscire fuori malgrado questo scampolo di inverno, anche perché Mirko non si era ancora deciso ad apparire in cucina per iniziare a discutere di carri armati e generali.

La pioggia, il freddo e la distanza dal paese più vicino sembravano aver fatto di Prato Sopralacroce un luogo assolutamente deserto. Chiusa l’unica bottega; chiuso il minuscolo Ufficio postale e chiuse anche la chiesa e l’osteria, non c’era nessuno tranne me e un infastidito gatto rosso visibilmente infastidito da me che gli apparivo palesemente un intruso qual ero. Prima di sparire attraverso la porta socchiusa di un fienile, mi aveva lanciato un’occhiata fredda di disprezzo come solo i gatti rossi sanno lanciare; con gli occhi socchiusi, naturalmente.

L’intero paese appariva come un diorama in scala 1:1 e io ci camminavo dentro scrutandone le pietre nere, viscide di pioggia, l’erba verde e novella, cresciuta nell’abbandono di case da dove oltre i proprietari – spariti chissà dove sulla costa – persino i ricordi erano ormai usciti da molti anni.

Era quella la sorte dei borghi d’Appennino, dal col di Tenda all’Aspromonte. Paesini nati e cresciuti in forza di una caparbia ragione ormai sparita. Poteva essere stata la strada che legava due valli, un bosco dove far carbone e legna, dei pascoli freschi o cose del genere. Erano ragioni che queste minuscole comunità avevano ritenute sufficienti per rimanere quassù, dove il mare in una bella giornata di sole lo puoi vedere come un drappo di stoffa blu scura e per il resto del tempo lo puoi solo immaginare attraverso la nebbia del bosco.

Prima che i supermercati e le villette a schiera con annessa taverna esercitassero il loro finale richiamo c’avevano pensato le grandi fabbriche della pianura e la guerra a stanare dalle loro case di pietra quella gente silenziosa dalle gambe d’acciaio e dalle parole pesate come fossero piombo.

Sulla piazzetta di fronte alla chiesa, in un angolino sotto l’indifferente abbraccio della Patria, una lapide ricordava la quindicina di morti che la sua grandezza aveva imposto persino ai giovani di Prato Sopralacroce. Quando mi capita di imbattermi nei monumenti ai caduti mi fermo sempre a leggere le lapidi con i nomi dei giovani italiani vittime delle nostre guerre ormai dimenticate. Ne abbiamo in tutti i paesini d’Italia e ce n’è uno anche a Prato Sopralacroce, vicino alla chiesa. Sono certo che quei ragazzi, uccisi da un colpo di artiglieria o dal tifo non avrebbero avuto alcun interesse a che qualcuno come me gli spiegasse il perché erano morti e in nome di cosa o per conto di chi. A loro rimaneva solo la fregatura suprema di una morte senza spiegazioni.

Nella sua assoluta eleganza, la natura aveva pensato che un ramo in fiore sopra quel ricordo ci sarebbe stato proprio bene. Tutt’attorno aveva poi sparsi petali bianchi e frettolosi che giacevano a terra, sterminati da un vento freddo e improvviso, rimasto in agguato nell’ombra dell’inverno. Sul muro di fronte era incisa caparbia la testimonianza di un capodanno passato ed oltre la chiesa, allo sbocco di un vicoletto, un manifesto ricordava l’anniversario di un’altra strage, quella del15 febbraio 1945. Quel giorno fascisti e tedeschi avevano messo al muro dieci prigionieri presi dalle carceri di Chiavari. E chi se ne ricordava più, oggi che tedeschi e anche fascisti vengono da queste parti a fare trekking o a rilassarsi in un agriturismo.

Avevo trovato buffo e perfettamente in linea con questa linea d’oblio che il manifesto fosse proprio dietro il cassonetto della differenziata. Proprio vero che l’Occidente uccide il proprio passato e per questo non riesce a vivere il presente né, tanto meno, a immaginare un futuro.

Me ne ero tornato a casa passando dalla fermata dell’autobus che ci teneva a precisare che essa valeva per ambo i lati. Uno di questi giorni mi sarei deciso a scrivere di questa nuova guerra, ma nel frattempo avevo sperato che su quei poveri nuovi morti e su quelli vecchi che la mattina avevo incontrato qualche albero del Signore avesse deciso di spargere petali bianchi e frettolosi, annunciando loro che la Pasqua è vicina.

Vent’anni fa, una sera, a Roma.

Ricordi personali dell’ultimo giorno di Giovanni Paolo II

Alla fine di marzo 2005 avevo una camera all’hotel Corsini, in via Giardini, a due passi dall’ospedale di Pavullo nel Frignano. Da Jesi mia madre era stata ricoverata lassù, in un ospedale senza nome come sono gli ospedali dei paesi prima che qualche riforma sanitaria li cancellasse.

Lassù operava un chirurgo, a parere dei medici jesini un vero luminare, che avrebbe potuto salvargli un piede fratturato e aggredito dal diabete. Questo il motivo per cui mi trovavo lassù, dove passa il confine tra il pioppo e l’ulivo; tra la pianura che taglia la gola alle rane e l’infinito mare delle colline d’Appennino.

I giorni a Pavullo erano trascorsi tra una speranza, la paura e una cena in pensione, ma alla fine l’operazione era andata bene. Mia mamma aveva ancora il piede e per me era ormai arrivato il tempo di tornare a Roma.

Dai tempi del liceo, quando con il mio compagno di banco ed amico del cuore ci avevo trascorso una quindicina di giorni, avevo sviluppato una sorta di allergia per quella città. Roma per me rappresentava in eccesso tutto ciò che non tolleravo nelle cose e nelle persone. Troppo traffico, troppo sporco, troppa furbizia. Facile dunque immaginare con quale animo ero salito in macchina per farvi ritorno.

Appena fuori il paese mi era salito irrefrenabile il desiderio di rendere il viaggio il più lento e più lungo possibili. Scartata quindi l’idea dell’autostrada imboccai la vecchia statale che conduceva in Appennino fino a Porretta Terme e da lì, giù verso Pistoia e il Tevere. Allora avevo una bella Fiat Barchetta color argento, l’ideale per quelle strade di montagna all’inizio di primavera. E ce l’ho ancora, anche se impolverata.

Avevo acceso la radio e visto che in auto mi piace sentir parlare più che ascoltare musica ero finito, credo, su RAI 2. Da giorni il papa stava male e quel giorno, il 2 aprile 2005 dal mattino era ormai chiaro che si era alla fine. Guidavo ed ascoltavo; ascoltavo e guidavo. Ogni tanto un caffè e due passi per sgranchirmi le gambe o fare un paio di foto. Così verso le sette di sera ero arrivato a Civita Castellana, a pochi chilometri ormai da casa. Per tutto il viaggio avevo seguito l’agonia di quest’uomo. Avevo ascoltato testimonianze di questo e di quello, ricordi d’infanzia e collegamenti da piazza San Pietro. Dentro ognuna di quelle conversazioni non c’era nulla di speciale o di interessante se non il fatto che l’intero Paese si fosse fermato in attesa della notizia. Quello si che era davvero inatteso. Almeno per me.

Decisi di tirar dritto fino a Roma. Ci arrivai in meno di un ora e riuscii anche a trovare un parcheggio in via dei Gracchi che per chi è pratico di Roma è un po’ come trovare un diamante. Scesi dalla mia Barchetta e mi incamminai verso Piazza Risorgimento. Girato l’angolo con via Cola di Rienzo mi accolse una folla di persone come avviene nei giorni di festa all’ora del passeggio. Solo che non parlava nessuno. Nessuno proferiva parola, anzi si sentiva un leggero bisbigliare e lo scalpiccio di migliaia di scarpe. Nessuno chiedeva cosa fosse successo o dove si stesse andando.

Per chi vive a Roma non sentire il minimo rumore, nessuna sirena, nessun vociare; solo il rumore di migliaia di passi è un’esperienza estraniante. E lo fu certo per me. Fu al tempo stesso una sorpresa e una lezione. La sorpresa veniva certo dal mio giudizio superficiale sulla città e da questo veniva anche la lezione. Per esperienza millenaria Roma sapeva distinguere il valore degli uomini, che fossero re, papi, imperatori o popolani. Agli uomini degni, ed erano pochissimi, riservava la gentilezza nobile del suo volto ossuto; una cortesia quasi timida di chi vuole essere presente ma senza disturbare. Ero là e capivo, o almeno credevo di capire.

Arrivai infine in piazza San Pietro e a fatica trovai un angolo dove fermarmi. Accanto a me, nei pressi del colonnato, tre giovani preti polacchi con la loro bandiera sulle spalle pregavano inginocchiati. Più avanti qualcuno stava sgranando un rosario. Ogni tanto mi arrivava un verso del Padre Nostro o un Amen. Il resto era un accalcato silenzio di attesa. Alle 21 qualcuno disse che il Papa era infine morto.

Pensai a mia madre in ospedale, a me che avevo guidato per cinquecento chilometri per essere là, e pensai al perché mi trovassi proprio in quella piazza. Io che non avevo fatto neppure la cresima, né avevo tanta confidenza con la Chiesa. La risposta era in quella città che detestavo che m’aveva insegnato in un giro di angolo a capire chi è davvero degno di rispetto e chi di una presa per il culo. E visto che l’hanno fatto santo non si sbagliava. Questo il mio ricordo di Giovanni Paolo II che mia sorella chiamava “il Papone”. (P.S. Le foto sono mie).

Europa in pericolo, ma strade sicure.

Prima che EuroUrsula presenti il conto è bene dare un’occhiata a quello che abbiamo in dispensa. Il caso “Strade Sicure”.

Ognuno di noi li ha incrociati almeno una volta. Possiamo averli visti camminare negli atri di una grande stazione, in piedi davanti a qualche importante portone o su un fuoristrada mimetico fermo ad un semaforo. Sono gli uomini di “Strade Sicure”, l’operazione che l’esercito italiano sta portando avanti ininterrottamente dal 4 agosto 2008.

Un bimbo che fosse nato il 4 agosto 2008 quest’anno penserebbe alla maturità e loro, gli uomini e le donne di “Strade sicure” sarebbero ancora là, magari sotto casa sua. Quel bimbo ormai ragazzo potrebbe addirittura iniziare a pensare all’università e loro, i militari, saranno ancora sotto casa , visto che la legge di bilancio 2025 ha prorogato l’operazione fino al 2027.

Sotto un tendino bianco 2 metri x 2 o vicino a un mezzo mimetico quei gruppetti di tre o quattro militari fanno ormai parte del paesaggio urbano come i rider di Glovo e i monopattini. Sebbene la loro sia una presenza silenziosa e discreta l’impegno per “Strade Sicure” non è cosa da poco visto che si sviluppa in metà delle province d’Italia (57 su 107), fornendo vigilanza a 920 siti giudicati sensibili tra cui 20 stazioni ferroviarie nelle città di Genova, Milano, Torino, Bologna, Venezia, Verona, Firenze, Roma, Napoli, Bari e Palermo.

In totale sono 6.600 tra uomini e donne che ogni giorno – per tutto il giorno – se ne stanno nella loro uniforme da servizio e combattimento (questo è il nome della mimetica) a cercare di mantenere sicure le nostre strade e stazioni.

In questi 17 anni hanno fermato e controllato oltre 48 milioni di persone e di auto; 102.000 le persone fermate, arrestate o denunciate; 1.790 le armi sequestrate e 16.800 i veicoli per finire con 2,5 tonnellate di droghe varie sequestrate. Di certo un buon lavoro, ma a quale costo?

Ve lo ricordate il 2008? Il 15 settembre fallisce la Lehman Brothers dando il via alla peggiore crisi finanziaria e poi economica dai tempi del giovedì nero di Wall Street nel 1929; Barrack Obama è eletto per la prima volta Presidente degli Stati Uniti e da noi governa Berlusconi. È il suo quarto ed ultimo governo e per ottimizzare le strutture statali e trovare da fare ai militari che, a suo dire: “… stanno tutto il giorno in caserma a non fare nulla e a perdere tempo...” perché non mandarli per le strade ad aiutare carabinieri e polizia nel difficile compito di mantenere sicure le strade d’Italia? Al ministero della Difesa c’è l’on. Ignazio La Russa che non trova nulla da obiettare e così si è iniziato; per far fare un po’ d’esercizio a quegli sfaccendati.

Alla fine dell’estate 2008 entravano in Accademia gli aspiranti allievi ufficiali del 190° corso Audacia. Ragazzi e ragazze di 19 o 20 anni, convinti che avrebbero servito la Patria come ufficiali dei nostri prestigiosi e storici corpi. Oggi sono Tenenti Colonnelli e quasi tutti li hanno trascorsi entrando e uscendo da un gazebo di Strade Sicure.

Dal 2008 a oggi sono cambiate molte cose. C’è stata la guerra in Libia, l’ISIS e lo stato islamico (quello c’è ancora), l’attentato a Charlie Ebdo e quello all’aeroporto di Bruxelles, la missione francese in Mali e via così fino ad arrivare all’invasione russa dell’Ucraina, alla nuova presidenza Trump e al grido d’allarme di EuroUrsula circa l’imminente invasione di Vladimiro resa ancor più pericolosa dal fatto che Donaldo Belli-Capelli non è detto che verrà a darci una mano. 

Se dunque la situazione della sicurezza nell’Europa occidentale è compromessa al punto di dover chiedere ai paesi membri dell’Unione d’indebitarsi con urgenza per circa 600 miliardi di euro; Se da tutte le parti i capi militari delle forze armate chiedono di incrementare gli organici attuali di migliaia e migliaia di uomini (in Italia 40 – 45.000 nell’Esercito e circa 10-15.000 per la Marina) Se la belga Hadja Lahbib, commissaria UE per la Gestione delle crisi, propaganda un kit di sopravvivenza in caso di guerra/crisi, viene da chiedersi se – nel mentre che Vladimiro sta organizzandosi per sferrare l’inevitabile attacco – non si possa fare qualcosa di meglio con quello che si ha. Certo non è poi molto, ma è sempre meglio che niente.

In Italia la sola operazione “Strade Sicure” assorbe dai 12 ai 14 reggimenti di manovra, ciascuno per un periodo di sei mesi durante i quali queste “task forces”, come vengono definite forse per darsi coraggio, vengono sparpagliate per tutta Italia secondo l’immutata visione del Fu Silvio Berlusconi.

Questi sei mesi di “impiego” sono preceduti da una serie di addestramenti specifici dedicati a una cosa sola: far capire a un bersagliere, a un paracadutista o ad un alpino – abituati a pensare in termini di nemico – a ragionare e a comportarsi come un poliziotto, per giunta con poteri assai limitati che lo rendono più simile ad una guardia giurata. Chiediamoci dunque chi, mentre questi 6.600 uomini svolgono un compito simil-guardia giurata, si incarica di fare il soldato, cioè di essere pronto a difendere in armi lo Stato. Vedremo poi.

Al rientro da questi esaltanti sei mesi trascorsi tra la Stazione Termini, i musei Vaticani e via delle Fornaci ci saranno da recuperare i sabati e le domeniche trascorse sotto il gazebo, le ferie non fruite e i giorni di riposo spettanti per legge. Sommato tutto i reduci delle Strade sicure scompariranno per due o tre mesi. Chi decide di rimanere in caserma o di limitare il periodo di assenza lo fa per spirito di servizio e perché non vuole fare brutta figura con il comandante. Nel frattempo i reggimenti che hanno espresso una parte dei militari di una task force devono mandare avanti le attività di tutti i giorni, alcune delle quali incomprimibili. C’è, infatti, bisogno di chi manda avanti l’ufficio amministrazione o l’officina leggera del reparto. E al deposito carburanti a fare i pieni alle dieci di sera chi ci mettiamo? Per non parlare degli autisti dei camion comandati per il ritiro o la consegna di questo o quel pezzo o in qualche altro incarico logistico. Finisco qui un elenco che sarebbe molto più lungo.

Per tradurre tutto in percentuali aggiungiamo che oggi un reggimento medio, se è stanziato al nord Italia, è all’80% della sua forza organica ma quasi al 110% se al Sud. “Bene!” – penserete voi – “usiamo maggiormente i reggimenti di stanza al Meridione“. Ottima idea se non fosse che quel 110% si raggiunge spesso per via degli avvicinamenti dovuti alla legge 104 o per lo svecchiamento dei reparti di provenienza. Insomma, quale che sia il reggimento che prenderete, che sia al nord o al sud, il comandante potrà far conto si e no sul 70-80% degli uomini realmente presenti. Da questi dovrà quindi sottrarre un buon 10-15% da dedicare a “Strade Sicure” il che porta un reggimento a poter far conto sì e no sulla metà della sua forza. Tradotto in termini più comprensibili su un reggimento che paga 800 stipendi si tratterebbe si e no di 500 uomini (Ufficiali, Sottufficiali e militari di truppa, con un rateo d’età dai 19 ai 60 anni) dai quali trarre anche quelli per il funzionamento della caserma e dei servizi.

Adesso parliamo di addestramento. Si tratta di quella attività che ogni esercito serio conduce quando non combatte e che serve a combattere limitando le perdite. “Più sudore, meno sangue” campeggiava una volta sui campi di addestramento ed è vero. E’ sempre stato vero.

Si tratta di svolgere attività alcune banali altre complesse altre molto complesse che fanno di un omino in divisa un soldato combat ready. E – Attenzione! Attenzione! – l’addestramento è un’attività che richiede continuità, determinazione, perseveranza e realismo. Ciò impone un grande dispendio di energie fisiche, mentali ed organizzative, al punto che, in quasi tutti gli eserciti, dopo una quindicina d’anni di marce, corse, spari, arrampicate, lanci, nuotate e notti passate dentro un sacco a pelo sotto un albero, quei soldati vengono ritirati dai reparti operativi e avviati ad incarichi più sedentari. A quel punto avranno circa 35 anni. I nostri soldati, anche nei reparti operativi hanno un’età media di 38 anni e nelle compagnie dei nostri migliori reggimenti non è raro trovare un veterano di 48-50 anni.

A questo punto si pone un semplice quesito che pongo a me stesso prima che al lettore. Prima di pensare a satelliti e droni; anzi, mentre si pensa a quelli e al megasuperipercarroarmato ammazza-tutti-i-nemici-con-forza-del-pensiero, non sarebbe meglio iniziare a guardare nei cortili delle nostre caserme, ridando dignità a chi, per passione o per bisogno, ha deciso di vestire l’uniforme? Fargli fare il soldato è già di per sé abbastanza gravoso da non aver bisogno di appioppargli qualche altra faccenda per la quale altri sono già pagati.