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IO SO CHE TU SAI CHE IO SO

Salve professor Falken, strano gioco; l’unica mossa vincente è non giocare!” Così rispondeva Joshua, il mostruoso computer del NORAD, a pochi istanti dall’apocalisse nucleare. Il film era “Wargame”, gli anni quelli di Reagan e de “l’impero del male”. Da allora sono trascorsi quasi quarant’anni durante i quali in pochi avranno pensato realistico evocare il fantasma nucleare sull’Europa. L’ha fatto Vladimir Putin, presidente della Federazione russa, alle prese in questi giorni con l’incerto andamento della sua guerra contro l’Ucraina. Il 24 febbraio, un giovedì qualsiasi è arrivata infatti la guerra; quella vera. La paura di un nuovo conflitto mondiale, l’inverno nucleare, la possibilità di una prossima fine del mondo hanno interrotto la zuffa epidemica alla quale, dobbiamo confessarcelo, c’eravamo anche abituati. Ma se ci si ferma a riflettere scopriremo che, paradossalmente, è stata proprio la paura, anzi il terrore a garantirci il più lungo periodo di pace nella storia dell’uomo. Certo dalla fine della 2^ guerra mondiale di crisi globali e guerre locali ne abbiamo avute tante, qualcuno dice più di cinquecento, ma mai siamo stati davvero sul punto di giocarci la vita dell’intero pianeta e credo che, malgrado le truculente descrizioni della TV di stato russa, non lo siamo neppure questa volta. Tuttavia una remotissima possibilità rimane; laggiù, nell’Ade dell’inimmaginabile ma pur sempre reale, vediamo quindi come siamo arrivati a questo punto.

Nei diecimila anni della storia della guerra ci sono due date che faremo bene a ricordare perché è a partire da quei due giorni che l’umanità ha davvero avuto la concreta possibilità di estinguersi per un atto volontario. La prima è il 6 agosto 1945, un lunedì, quando alle 8,15 gli americani annunciarono al mondo e a 150.000 ignari giapponesi di avere il monopolio della morte nucleare. L’altra è un altro lunedì di quattro anni dopo, il 29 agosto 1949, quando a Semipalatinsk, nel remoto Kazakistan, i russi fecero esplodere la loro prima bomba atomica, annunciando che il monopolio era finito. Da quel momento inizia la costruzione dell’equilibrio di terrore tra le due superpotenze, un equilibrio basato su una certezza: mai, in ogni momento, in qualsiasi circostanza un attacco nucleare portato dall’uno contro l’altro avrebbe garantito una vittoria che avesse un minimo di senso. Per decenni e ancora oggi si è trattato quindi di conservare un equilibrio dinamico dove ognuna delle parti ha cercato di aprire uno spiraglio a quell’impossibile vittoria; spiraglio rapidamente chiuso dall’antagonista di turno attraverso l’introduzione di nuovi armamenti, più precisi, più letali e più numerosi. E via così.

Si era iniziato negli anni ’50 con i bombardieri strategici, aerei in grado di trasportare in qualche ora una bomba atomica sul territorio del Nemico. I missili a quel tempo erano ancora troppo rudimentali, troppo inaffidabili e troppo imprecisi per affidare loro una missione così definitiva. Ci vollero gli anni ’60 perché sia la Russia sia gli Stati Uniti arrivassero a costruire missili che fornissero una certa garanzia. Ad arrivare per primi furono i russi che tirarono fuori l’R-7 Semiorka, un mostro di 280 tonnellate alto 30 metri capace di trasportare una testata atomica a 9.000 chilometri dal luogo di lancio con la precisione di qualche chilometro. Gli americani risposero con l’ATLAS che di tonnellate ne pesava la metà ma arrivava a 18.000 chilometri e via così per tutti gli anni ’60 e ’70. Sono gli anni dei MINUTEMAN, dei JUPPITER e di un’intera famiglia di missili russi dai nomi impronunciabili che sostanzialmente davano vita a due famiglie diversi: i missili balistici e quelli da crociera o “cruise”, per dirla all’americana. Si trattava e si tratta ancora di armi completamente diverse. I primi, i missili balistici si comportano come un sasso lanciato lontano. Hanno cioè una traiettoria balistica con un tratto ascendente; un vertice , di solito ben fuori dall’atmosfera, e un tratto discendente che termina sull’obiettivo. Poche o nulle le possibilità di modificare la traiettoria. Un cruise è un’altra storia. E’ sempre un missile ma somiglia e si comporta come un aereo. Il suo volo all’interno dell’atmosfera è programmabile e anche largamente modificabile. fino al punto di impatto. Dopo questa necessaria precisazione torniamo ai missili.  Per mantenere l’equilibrio non bastava avere missili intercontinentali in grado di annichilire il Nemico, il suo esercito e le sue città. Bisognava prima essere certi che il Nemico che volevamo annichilire non fosse in grado di distruggere i nostri missili prima che noi distruggessimo i suoi.  In altri termini oltre a possedere un missile micidiale bisognava disporre anche di un luogo dove custodirlo e che fosse a prova di bomba. E’ questa l’epoca delle grandi basi missilistiche tanto care alla cinematografia degli anni ’70. Enormi silos di cemento armato e acciaio, sperduti nelle praterie americane o nelle steppe sovietiche, centri comando a centinaia di metri sotto terra, recinzioni e aree riservatissime. Ed è tutt’oggi ad esempio per la Russia che affida a missili balistici intercontinentali gran parte delle circa 4.477 testate nucleari di cui si stima disponga (stime 2022). I siti di lancio fissi sono visibili dallo spazio, e le loro attività, anche lo sfalcio dell’erba sono monitorate secondo per secondo offrendo così la reciproca e quotidiana possibilità di sapere se il mio Nemico anche oggi ha deciso di regalarsi un giorno di vita oppure sta facendo qualcosa di inatteso e preoccupante. In questo caso reagirò immediatamente, lui se ne accorgerà subito e probabilmente si tornerà nella normalità il più presto possibile. Tutto risolto? Certo che no. Ad entrambi le potenze atomiche era infatti venuto in mente che, in fondo, questi missili potevano essere lanciati anche da un treno o da un camion piuttosto robusto. Come si fa a tenere sott’occhio ogni camion e ogni treno dalla Siberia alla Montagne Rocciose? A quel punti l’equilibro sarebbe stato troppo dinamico e la possibilità che qualcuno ne approfittasse troppo alte. Che fare? Semplice, si rilancia con qualcosa di ancora più difficile da individuare; un sottomarino a propulsione nucleare, ad esempio. Un battello da un miliardo di dollari in grado di navigare in immersione per mesi e di arrivare così vicino alle coste nemiche da non dar tempo neppure di recitare l’ultima preghiera. Sul finire degli anni ’70 si era quindi composta quella che ancora oggi è definita come la “triade nucleare”, formata da bombardieri strategici, missili intercontinentali e sottomarini nucleari. Anche la triade merita una veloce riflessione. Se un bombardiere che trasporta qualche ordigno nucleare impiega infatti qualche ora per raggiungere il punto di rilascio e lo stesso per un sottomarino, allora posso anche avere il tempo per tentare di far rientrare la crisi, di cercare una soluzione o di convincere il Nemico che si fa sul serio. Basta un messaggio all’ultimo secondo e il bombardiere, con un’elegante scivolata d’ala, rientrerà alla base e il sottomarino potrà invertire la rotta. Insomma nella triade bombardieri e sottomarini permettono di spaventare a morte ma anche di fermarsi prima dell’irreparabile. Il missile invece non dà tempo. Una volta che l’autorità suprema ha deciso di lanciarlo e la sequenza di lancio sarà ultimata decollerà e arriverà sul bersaglio in meno di un’ora, senza possibilità di ripensamento. E’ l’arma definitiva. Si potrebbe ora discutere di missili a combustibile solido o liquido, di missili cruise, di MIRV e di sistemi di guida a mappatura stellare. Argomenti tutti interessantissimi che però rischiano di distogliere il ragionamento dal suo punto cruciale. Siamo noi in grado, o meglio, sono in grado i decisori ultimi di provare il necessario terrore che gli impedirà anche il solo pensare a ricorrere all’arma nucleare? In fondo la costruzione di missili nucleari tattici, cioè meno potenti, l’invenzione delle testate multiple e indipendenti, i sistemi di guida in grado di colpire con una scarto di qualche metro non risolvono la questione. Chi decide ha o non ha la percezione intima di cosa sta facendo? Avverte una salvifica paura? Si entra qui nel campo della fede che nessuna procedura di sicurezza, per quanto accurata e testata, può rendere una certezza. Vorrei pensare che ogni volta che una delle potenze atomiche ha forzato la mano agitando la sua valigetta nucleare lo ha fatto solo per ricordare a tutti che è necessario avere paura e di conseguenza scegliere un’altra strada. Si è accennato qui alle potenze atomiche, ma quante sono e soprattutto, ci si può fidare? Decidete voi. Della Russia e degli Stati Uniti abbiamo già parlato; ad essi da anni si è affiancata la Repubblica Popolare Cinese che da non molto, grazie ai sottomarini classe Shang, dispone anch’essa della triade nucleare così come Francia, Gran Bretagna, India e Pakistan. Israele e Corea del Nord completano il club, ma non dispongono di sottomarini in grado di rilasciare missili balistici nucleari. Ciascuna di queste nazioni ha la possibilità di condurre o di reagire a una guerra nucleare il che le rende completamente diverse da tutte le altre, sia nella politica, sia nella considerazione del loro collocarsi nel consesso mondiale.

Alla luce di questa panoramica come si inquadrano duque le parole di Putin circa armi terribili e mai viste? In larga parte si tratta, come è ovvio, di propaganda. È propaganda infatti l’ultimo missile RS-28 “SARMAT”, che la NATO denomina “SATAN”. I russi, in base ai nuovi obblighi del Trattato START, hanno infatti adeguatamente informato gli Stati Uniti del test e gli USA hanno monitorato il collaudo del missile russo con due aerei RC-135S Cobra Ball. Questi aerei dispongono di apparecchiature specializzate per tracciare questi tipi di armi e raccogliere dati di telemetria e altri dati di intelligence elettronica, nonché immagini visive. Dunque il lancio avvenuto il 20 aprile 2022 alle 15:12 (ora di Mosca) dal cosmodromo di PLESETSK nella regione di ARKHANGELSK era perfettamente noto. Così come è noto che il SARMAT è stato lanciato con successo da una postazione fissa terrestre e che le attività di collaudo del lancio sono state completate con successo con le testate multiple di addestramento che hanno colpito obiettivi nel poligono di addestramento di KURA nella penisola di KAMCHATKA. Si sa anche che nella base missilistica di UZHUR, nel territorio di KRASNOYARSK, sono in corso i lavori per preparare il reggimento missilistico locale al nuovo sistema d’arma che sostituirà il più anziano R-36M “VOEVODA” dell’era della Guerra Fredda.

Non c’è da preoccuparsi dunque. In realtà qualche motivo di preoccupazione lo si potrebbe avere e riguarda la famiglia delle cosiddette “armi ipersoniche”. Si tratta di missili che si muovono nell’atmosfera ma ad elevatissima velocità – si parla da mach 5 a mach 25 – che tradotto in chilometri all’ora, per chi riesce ad immaginarlo, sarebbero da 6.000 a 30.000 km/ora. A quelle velocità il tempo di volo e anche la capacità che questi missili hanno di cambiare traiettoria rendono la loro scoperta e il successivo abbattimento quasi impossibile. Ecco quindi che sono armi che rompono quell’equilibrio dinamico a cui si è sempre accennato. Oltretutto Russia e Cina, competitori primari degli Stati Uniti, sono molto avanti in questo settore sebbene Washington abbia investito moltissimo per ristabilire l’equilibrio e, magari, spostarlo a suo favore. Si tratta dunque della solita meccanica di azione e reazione che da settant’anni regola gli equilibri in questo pianeta. Reggerà per sempre o da qualche parte c’è già un dottor Stranamore pronto a tentare il colpo, magari di lunedì, magari d’agosto. Vedremo.

Storia militare della guerra russo-ucraina 1917-2014

Con qualche giorno di ritardo vi presento questa accurata ma per nulla noiosa storia militare della lunga guerra russo ucraina che in questi giorni sta volgendo verso il suo – per ora – ultimo atto. Si tratta di un’opera utile per chi non si accontenta delle sintesi di 20 secondi dei telegiornali o di quelle spesso pilotate dei giornali. Giovanni Cecini, che mi onoro di conoscere personalmente, ripercorre con pazienza e attenzione il doloroso cammino di questi due popoli che dalla geografia oltre che dalla storia sono costretti a confrontarsi, spesso con le armi, senza mai potersi semplicemente ignorare.

Su Amazon libri “Storia militare della guerra russo-ucraina 1917 – 2014” di Giovanni Cecini e Mirko Campochiari, edizioni Parabellum, 19 euro

GIOCHI DI PRESTIGIO.

Mentre con una mano agitano Vladimiro, con l’altra ci tolgono il portafoglio. Qualche riflessione su Rearm Europe

Di recente mi sono rivisto “La caduta – gli ultimi giorni di Hitler”,  un film del 2004 con un magistrale Bruno Ganz nelle difficile parte di un Adolfo agli sgoccioli, ormai disconnesso dalla realtà di una guerra perduta. Tra un urlo, una destituzione e un momento di depressione Adolfo vagheggiava della 9^ armata di Busse pronta nei suoi sogni a respingere i bolscevichi fuori da Berlino. In realtà i russi di Zucov e gli ucraini di Konev erano già sulla Voss Strasse, a 400 metri dalla Neue Reichskanzlei da dove la Germania avrebbe dovuto governare il mondo per mille anni. Grande film.

E deve averlo visto anche EuroUrsula rimanendone talmente impressionata da credere che i russi, questa volta quelli di Gerasimov, fossero di nuovo nei sobborghi di Berlino. Attraversando uno Stargate che univa la primavera del ‘45 a quella del 2025, EuroUrsula ha suonato la sirena e chiamato alle armi i popoli, anzi, i governi e le banche d’Europa annunciando loro che non c’era un secondo da perdere. Vladimiro, in preda a bulimia da zolla era già in marcia verso ovest. Sembrava che uno dei satelliti di Elonio l’avesse individuato in fila tra Roncobilaccio e Barberino del Mugello, ma la notizia non era stata confermata.

Tanta era la paura di EuroUrsula da non darle il tempo né per l’ennesima messa in piega e neppure per informare quel simulacro di democrazia rappresentativa che è il parlamento europeo. La Sventurata si era rivolta direttamente al Consiglio europeo, vale a dire al consesso dove si riuniscono i capi di Stato e di governo dei paesi dell’Unione. Nel nostro caso la Giorgia Nazionale. Rivolgendosi a chi in Europa comanda davvero EuroUrsula non ha però fatto appello né ai luminosi destini della Patria, né alle virtù guerriere degli avi e neppure ai sacri valori della Civiltà occidentale minacciati dalle orde ex-bolsceviche. Per carità. Al contrario ha parlato di soldi. Tanti, tanti soldi.

Per memoria riassumo il nocciolo dell’appello. Ci sono circa 800 miliardi di euro da spendere con estrema urgenza, ma a parte un 150 miliardi, questi soldi non sono da pescare dai fondi europei (che poi sono sempre soldi versati al fondo dagli stati nazionali), ma vanno trovati nelle pieghe dei singoli bilanci nazionali.

E se qualcuno, guardando alle desolate condizioni delle proprie finanze, proprio non riesce a trovare quei 30 o 40 miliardi per difendere la civiltà? DO NOT PANIC! EuroUrsula autorizza tutti i Paesi a fare debito. Quando si parla di debito pubblico noi italiani di certo non abbiamo niente da imparare da nessuno visto che siamo a 2.561 miliardi (fonte ministero del Tesoro, dati al 25 febbraio 2025). Cosa vuoi che sia aumentare il tutto di altri 30 o 40 miliardi? È vero però che quando abbiamo chiesto di indebitarci per modernizzare la rete delle infrastrutture strategiche; la sanità post-Covid e persino per mettere in sicurezza le parti più malandate del nostro tremolante paese che ogni tre-per-due frana o finisce sott’acqua la stessa EuroUrsula ci ha fulminati con un’occhiataccia che avrebbe gelato persino Ebenezer Scrooge. Allora perché adesso c’è tutta questa fretta? Oltretutto la Polstrada ha intanto precisato che tra Barberino di Mugello e Roncobilaccio ci sono sempre i soliti rallentamenti, ma di Vladimiro nemmeno l’ombra e c’è chi addirittura inizia a parlare di trattative di pace per porre fine al conflitto d’Ucraina.

Si sa che di Vladimiro non ci si può fidare. Ne sanno qualcosa Aleksej Navalnyj, Anna Politkovskaja e 40 milioni di ucraini. Così EuroUrsula ha deciso che dovevamo armarci per dissuaderlo dal farci una guerra che lui non ha alcuna intenzione di farci e per essere noi pronti per una guerra che nessun europeo è disposto a combattere.  Sembra di essere in una pièce di Ionesco.

Se Vladimiro non solo non ha intenzione di attaccarci, ma non ne ha neppure i mezzi, almeno non più di quelli che ha sempre avuto a disposizione. Se da qui ai prossimi 20 anni non avremo alcun esercito europeo inteso come strumento dell’Unione Europea. Se l’Unione per come è stata pensata non ha autonoma capacità di dichiarare guerra a chicchessia e neppure di intraprendere una propria politica estera o interna per il semplice fatto che NON E’ uno Stato, né una federazione di Stati e neppure una Confederazione, ma una “Cosa” che, forse diverrà col tempo qualcosa di riconoscibile, magari come diceva il Senatore Monti: “…crescendo da una crisi all’altra”. Se EuroUrsula non ha pensato di presentare uno straccio di piano strategico, magari derivato da un qualche studio sulla sicurezza sviluppato da un ente o da università che, grazie a Dio, in Europa non mancano. Se per rispondere alla domanda su quale fosse la minaccia da affrontare gli stessi militari non sono stati neppure interrogati. Se, dunque, si mettono in fila tutti questi “se” viene spontaneo sospettare che dietro a tutta questa fretta ci sia dell’altro. Cosa?

Il primo sospetto è che REarm Europe non sia un piano per la Difesa&Sicurezza ma una grande manovra finanziaria e, contemporaneamente, un’azione politico-sociale che punta a un preciso obiettivo.

Chiedere, anzi ordinare, ai Paesi europei di indebitarsi, anche se a condizioni favorevoli, comporterà infatti inevitabilmente il verificarsi di uno dei seguenti scenari. Il primo. Si emetteranno buoni del tesoro sperando che i mercati li acquistino in gran quantità in modo da far crescere il debito dello Stato senza però aumentare le tasse. Il secondo, si aumenteranno tasse, imposte e accise per recuperare, almeno in parte, la somma richiesta (dai 20 ai 40 miliardi). Il terzo, si sposteranno parte dei fondi già destinati ad altri settori (scuola, sanità, infrastrutture) per destinarli a quello Difesa&Sicurezza. Il quarto scenario è una combinazione dei tre precedenti in percentuali tutte da definire.

In ogni caso il tenore di vita dei cittadini, la disponibilità dei servizi – soprattutto sanità e scuola – inizierà o continuerà a decadere, forse poco, forse tanto, ma decadrà. Il che vuol dire che chi se lo può permettere attingerà ai propri risparmi per compensare il peggioramento del servizio pubblico. E chi fornisce servizi privati a pagamento? Le assicurazioni private, la previdenza privata, la sanità privata. Tutte cose le cui azioni sono in mano ai grandi fondi di investimento internazionali, la maggior parte dei quali americani.

Fino a oggi la maggior parte dei soldi gestiti da questi importanti gruppi – fondi provenienti dal così detto “risparmio gestito” – sono finiti in due comparti principali. Il primo è quello dell’Alta Tecnologia, il secondo quello farmaceutico. L’insieme del comparto High TEch (Google, Invida, Tesla, Apple e altri gruppi) è attualmente valutato in borsa attorno ai 15.000 miliardi (quindicimila miliardi di dollari che scritto verrebbe così 15.000.000.000.000 $). Non si tratta di un valore effettivo, cioè derivante da prodotti, infrastrutture, lavoro, oggetti o servizi reali, ma dalla promessa che prima o poi questi si realizzeranno rendendo ricchissimi i possessori delle azioni. È quella che si definisce una “bolla” che come tutte le bolle, prima o poi scoppierà. Quella immobiliare del 2008 era un decimo di questa e ha lasciato il pianeta in mutande per quasi quindici anni. Quella tecnologica e dell’intelligenza artificiale rischia ora di diventare l’Armageddon dell’Occidente.

Il secondo settore è il farmaceutico che, grazie a Dio, regge ancora bene, visto che l’Occidente è pieno di gente anziana e ipocondriaca. Tanto per avere qualche numero nel 2024 La spesa farmaceutica pro-capite italiana (fonte Agenzia Italiana del Farmaco -AIFA) è stata di 612 euro, più o meno sugli stessi livelli di Francia e Spagna e appena inferiore a quelli della Germania (673 euro). Certo i bei tempi del Covid, delle vaccinazioni di massa e delle vagonate di fiale acquistate a prezzi esorbitanti si stanno allontanando e con essi gli extra-profitti per le grandi case farmaceutiche. EuroUrsula ne sa certo qualcosa anche se ormai non si parla più dei contatti diretti e delle altrettanto dirette influenze che la cotonata Valkiria ha intrallazzato con la Pfizzer. Tutto sparito come gli sms che li testimoniavano.

Con un comparto dell’High Tech ipertrofico e – forse – prossimo all’esplosione, e con quello farmaceutico rientrato negli argini, i profeti del capitalismo finanziario avranno pensato bene di rivolgersi al comparto armamenti. Viste le ultime quotazioni di borsa imprese come Fincantieri, Leonardo,  Rheinmethal o Thales sembrano averlo compreso alla perfezione.

Alla virata verso il comparto carri armati&affini ha contribuito anche il superflop che le politiche green dell’Unione Europea hanno inflitto all’industria automobilistica europea e che, come direbbe Montalbano, hanno fatto “girare i cabasisi” a gente come VolksWagen, Stellantis, Renault et similia. Una riconversione anche parziale dalle Golf e dalle Smart in blindati potrebbe di certo aiutare a superare il difficile momento imposto all’auto dalla EuroUrsula alla clorofilla.

Ulteriore elemento da considerare è che con questo annuncio EuroUrsula ha tentato di tranquillizzare Donaldo che senza mezzi termini ci ha ordinato di pensare di più ai problemi di sicurezza di casa nostra. Per quanto eccessivo neppure Donaldo ha mai accennato alla possibilità che Vladimiro ci faccia la guerra e anche il segretario di stato Rubio ha confermato che azioni ostili da parte di Mosca sono del tutto improbabili e che comunque sarebbero respinte dalla NATO. Già la NATO. Sembra che EuroUrsula si sia dimenticata che dal 4 aprile 1949 (tra poco sarà il compleanno) l’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico ha garantito la sicurezza in Europa occidentale a fronte di russi ben più pericolosi e determinati degli attuali. E continuerà a farlo non per bontà ma perché questo è l’interesse vitale per Donaldo e i suoi successori, azionisti di maggioranza dell’Alleanza.

A ben guardare quello dell’irascibile biondo-che-fa-impazzire-il-mondo è stato un messaggio rassicurante per l’Europa. Cosa ha detto? Semplice. Il concetto si può sintetizzare in:” Europei, banda di sfaticati pelandroni, visto che la Russia non vi attaccherà né ora, né nei prossimi 20 anni, io non ho né il tempo, né la voglia, né i soldati, né i dollari per continuare a mantenere un ombrello militare a stelle strisce sopra di voi. Tenuto conto che avete eserciti in uno stato pietoso e che per fortuna non ne avrete bisogno nell’immediato futuro, iniziate a darvi una sveglia e a buttare i vostri euro in aerei, satelliti e blindati invece che in previdenza, pensioni sociali e sanità. Nel ringraziarvi del 68% di acquisti in tecnologie militari che fate in America, vi sarei grato se passaste velocemente al 75%. Sapete c’ho un problema con la Cina che non mi lascia dormire”.

Sia chiaro, le forze armate dei Paesi europei (quelle europee in senso stretto non esistono), chi più, chi meno, giacciono tutte ai piedi di Pilato e avrebbero bisogno tutte di robusti programmi di ammodernamento e approvvigionamento di materiali, equipaggiamenti e armi. La responsabilità qui non è né di Vladimiro né di Euroursula, ma dal trentennale convincimento che la guerra fosse sparita e che gli eserciti del 2000 sarebbero serviti solo a tenere a bada qualche esaltato dittatorucolo o portare sollievo in qualche landa desolata. La guerra russo-ucraina è stata una sveglia davvero brusca.

Oltre e prima che di armi e scarponi i nostri eserciti avrebbero soprattutto bisogno di uomini. Quest’ultimo aspetto non è stato neppure sfiorato da EuroUrsula e si può essere certi che non lo sarà neppure dai Capi di Stato e di Governo ai quali ha fatto appello. Se infatti si può fare una manovra finanziaria speculativa spostando soldi dalle siringhe e dai vaccini ai cannoni e ai missili, tutt’altro discorso è convincere i giovani dei paesi dell’Unione a indossare una divisa e a rischiare la vita per i valori condivisi dell’Unione. E quali sarebbero? La famiglia? Sono sessant’anni che la si attacca in continuazione. L’ultima invenzione il patriarcato. La Patria? E quando mai, visto che menzionare la terra dei padri è stato per anni e anni sinonimo di fascismo. La Democrazia? Nemmeno. Guardiamo al peso sempre minore che le opinioni del popolo esercitano sulla politica degli stati. Qualche esempio? La legge elettorale italiana che non permette di scegliere i candidati ma solo i partiti o la decisione della corte costituzionale rumena di non far candidare Călin Georgescu perché filo-russo e via così. D’altra parte, non era forse stata Margareth Thatcher, icona dell’imperante neo-liberismo finanziario ad affermare che le società non esistono, ma esistono solo gli individui? E adesso si ha la pretesa che questi individui accorrano sotto le bandiere di un inesistente esercito europeo? Ci vorranno forse 50 o 60 anni e un drastico cambiamento di cultura per poter far loro questa domanda sperando in un ragionevole successo.

In conclusione, se il REarm Europe è con ogni probabilità una manovra di riposizionamento dei mercati finanziari europei; se così facendo si rabbonisce – forse – il Donaldo furioso e lo si dissuade dal imporre dazi del 200 % sul gorgonzola o sul Nebbiolo delle Langhe; se con questa decisione si intende dare un’ulteriore spallata allo stato sociale che ha permesso l’incredibile benessere di un intero continente, spingendolo così verso il modello americano. Se il discorso della EuroUrsula era solo questo, mi chiedo allora che bisogno c’era di scomodare Vladimiro e le sue orde per metterci paura. In Europa apparteniamo tutti a civiltà che hanno almeno un paio di millenni se non molti di più. Abbiamo visto Re e Imperatori, Papi e regine, invasioni, rivoluzioni, pestilenze, guerre quante ne vuoi. Secondo Lei, EuroUrsula, ci dovremo davvero spaventare per Vladimiro bloccato tra Roncobilaccio e Barberino del Mugello. Anche solo per prenderci in giro avremo meritato uno sforzo in più. Ah, lunedì i parrucchieri sono chiusi. Anche a Mosca.

ARMARSI UN PO’ E’ COME BERE…

… più facile che… ragionare. Breve viaggio nel delirio europeo.

È passato qualche giorno dalla figuraccia in mondo visione del colloquio Trump-Zelensky a Washington, il tempo minimo per tentare una riflessione.

Primo fatto: l’uscita di scena di Zelensky è già nell’aria da diversi mesi e come tutti i Capi il Presidente ucraino non ha alcuna intenzione di essere un Ex. Potrebbe essere stato il sentore dell’imminente fine politica o la consapevolezza della irrilevanza nel dibattito sul futuro dell’Ucraina a spingerlo a forzare i toni proprio nel sancta sanctorum del potere americano: lo studio ovale della Casa Bianca. Di certo Trump, Vance e tutto l’establishment repubblicano non l’hanno presa bene, soprattutto quando Zelensky ha prospettato per gli Stati Uniti – per ora protetti dall’oceano- un futuro di insicurezza e debolezza qualora la Federazione Russa non fosse stata seriamente arginata o sconfitta.

A qualche giorno dai fatti appare sempre più evidente come Zelensky sia rimasto fermo alla puntata precedente della serie “Noi e l’Ucraina”. Nella prima serie i protagonisti al di là dell’oceano erano Biden e i neo-conservatori, sostenitori- senza se e senza ma – della strategia dell’overstretching Russia e certi del suo collasso finale. Si trattava in vero di una strategia che aveva preso le mosse già al tempo della presidenza Clinton e che si basava sull’idea che obbligando Mosca ad una serie di impegni eccedenti le sue capacità economiche e militari, questa avrebbe finito per implodere, magari dando vita a una sorta di big-bang post sovietico dal quale sarebbero nati altri piccoli e deboli stati, poveri e in perenne conflitto tra loro, di certo non più in grado di impensierire nessuno.

Per Biden e i neo-conservatori americani più che un sogno questo rappresentava l’obiettivo di lungo periodo su cui orientare le operazioni nel breve e medio termine. Da questo scenario è dunque derivata la narrativa che voleva la Russia inevitabilmente sconfitta dall’Ucraina alla quale l’Occidente non avrebbe mai fatto mancare il proprio aiuto finanziario e militare. A questo si aggiungeva l’atto di fede collettivo sull’efficacia mortale delle sanzioni occidentali le quali ne avrebbero accelerato il collasso economico-industriale russo, fomentato ampie rivolte interne, culminando con la cacciata di Putin.

Negli anni ’40 il disegnatore Gino Boccasile rappresentava un soldato italiano in prima linea che, allungando la mano nuda verso l’osservatore, chiedeva imperiosamente armi e munizioni per continuare a combattere e a vincere. Lo stesso ha fatto Zelensky fin dall’inizio della guerra. Badate bene, Zelensky e il governo ucraino erano nel loro pieno diritto se non addirittura nel dovere morale di chiedere aiuto a chiunque, diavolo compreso, pur di difendere il proprio paese invaso. Tuttavia questo non avrebbe dovuto offuscare Kiec dal vedere come la resistenza e la difesa del Paese fossero completamente nelle mani americane e in misura minore, europee.

Fin quando la narrativa generale americana ed europea ha continuato a cantare la sicura sconfitta russa, gli a-solo di Zelensky, s’inquadravano armoniosamente nella sinfonia generale. Ma quando a novembre scorso Trump ha travolto i Democratici insediandosi come 47° presidente degli Stati Uniti la musica è cambiata e di molto.

Preso atto che l’idea di far collassare la Russia era per lo meno prematura e guardando al fatto che, malgrado ingentissime perdite, Mosca era ancora in offensiva, Trump ha pensato bene di limitare i danni chiudendo velocemente quel fronte, intavolando trattative dirette con Putin, mollare l’Europa e tenersi pronto per il nuovo scenario indo-pacifico che Washington considera – a torto o a ragione – il cuore del problema di sicurezza nei prossimi 40 anni.

Come un musicista che ha perduto un foglio di partitura, Zelensky non si è però accorto del cambio di musica e ha continuato a suonare lo stesso motivetto che andava così bene ai tempi di Biden. Peccato che il direttore e lo spartito fossero cambiati. Tornato in patria qualcuno ha comunque fatto presente al Presidente che l’aria era cambiata e che se voleva rimanere a galla ancora un po’ doveva rapidamente scendere a più miti consigli. E così è stato. Zelensky s’è detto infatti pronto firmare qualunque accordo sulle terre rare gli fosse stato proposto dall’amministrazione Trump, che ci fossero o meno garanzie di sicurezza che per lui volevano dire missili, munizioni e aerei.

È possibile se non addirittura probabile che qualcuno a Kiev o a Londra gli abbia fatto presente che le garanzie che andava cercando erano proprio lì, all’interno del patto delle terre rare. Cosa proponeva infatti Trump? Basta cannoni, missili, HIMARS, F16 e copertura satellitare. Al loro posto gli USA avrebbero aperto una serie di imprese estrattive nel Donbas ucraino o in quel che ne restava e forse anche in quello occupato dei russi, immaginando che una volta avviati investimenti per milioni e milioni di dollari e con la presenza in loco di molto personale americano ben difficilmente la Russia avrebbe ripreso a sparare. A maggior ragione se le nuove imprese a stelle e strisce avessero generato profitti anche per Mosca oltre che per Kiev. Qui occorre una piccola precisazione, anzi due, ma procediamo per gradi.

Un contratto 50-50 tra Kiev e Washington è estremamente vantaggioso, ma per Kiev. Se guardiamo infatti ad altre concessioni simili in giro per il mondo chi ci mette i capitali, le apparecchiature, le infrastrutture , i mercati, il trasporto e il personale – in questo caso gli USA – entra con una quota che varia dal 70 al 90%. Nell’accordo proposto da Trump ogni 100 dollari di utili, 50 dovrebbero invece andare nelle casse di Kiev, e non è poco.

La seconda precisazione riguarda non solo le terre rare, ma anche l’intera rete infrastrutturale e produttiva ucraina. Con un accordo segreto (ma non così tanto) con la Gran Bretagna pre-Starmer, il presidente Zelensky si è impegnato a cedere gran parte della ricostruzione delle infrastrutture post-belliche del paese a Londra la quale sarebbe poi entrata come socio di maggioranza negli utili generati. E questo per molti decenni da oggi. Stati Uniti e Gran Bretagna si sarebbero quindi già divisi – favorevoli gli stessi ucraini – gran parte della nuova Ucraina post-bellica, almeno sotto il profilo economico e produttivo

Qualcuno si chiederà a questo punto cosa toccherebbe al resto dell’Europa in termini di rientro dalle ingenti spese sostenute. Poco o nulla. Poco se si è la Germania, la Francia o la Polonia. Quasi nulla se si è l’Italia.

Se la situazione è quindi di un leader nazionale che è ad un passo dall’essere buttato fuori da ogni trattativa; di due nazioni leader – USA e Gran Bretagna – che per un verso o per l’altro gestiranno a loro esclusivo vantaggio il dopo guerra; delle Russia che, almeno per qualche decennio, resterà là dov’è e magar riuscirà anche a cavar fuori da quella mezza vittoria ottenuta in Donbas molto più di quanto si aspettasse, in primo luogo la riammissione tra il ristretto consesso delle super-potenze, la fine delle sanzioni e, forse, un riequilibrio del suo rapporto con l’amico indefettibile, cioè la Cina. Se dunque la situazione è questa è lecito guardare a questa Europa come un fattore pertinente ed attivo della partita. La risposta è no e per una serie di motivi.

Il primo è la pochezza della classe dirigente europea e dell’entourage di consiglieri, advisor, consulenti ed esperti che la contorna. L’Unione Europea già di per se è un’istituzione gracile, cresciuta all’ombra degli USA e nell’umido della finanza, senza mai essere illuminata dal sole della politica. Se poi questa pianta viene data in mano non a sapienti giardinieri in grado di prendersene cura ma a una pletora di burocrati che vede il mondo solo in termini di dare e avere, di conti, interessi compositi e di miliardi, il risultato è quasi scontato.

Un’Europa di ragionieri che guarda sgomenta a quello che percepisce essere il primo, grande cambiamento mondiale, dalla caduta dell’Unione sovietica, ma che non riesce a interpretarlo in alcuna chiave politica, solo economica. Ecco allora il piano Van der Leyen da 800 e rotti miliardi. Qualcuno ha visto uno straccio di disegno strategico a medio lungo termine? A parte Macron che vede i russi già a Chamonix, qualcuno ha presentato ai popoli europei una realistica descrizione della possibile e probabile minaccia? No di certo. E in assenza di uno straccio di strategia quali tipi di armamenti si dovrebbero acquistare e da chi? E quali linee relative all’organizzazione delle forze dovrebbero essere seguite. Qualcuno ha poi fatto cenno a quali dovrebbero essere le priorità? Che ne so, puntiamo prima di tutto sull’Aeronautica oppure sui missili e aspettiamo per i carri armati o viceversa. Nulla. Il dilettantismo e la trascuratezza con cui si trattano le delicate questioni di sicurezza sono sconcertanti. L’unica cosa che si comprende è come in assenza di ogni forma di politica questa Europa è in grado solo di mettere mano al portafoglio; tanto per fare qualcosa.

Dietro ai vetri a specchio dei palazzi di Bruxelles si deve nutrire davvero una gran paura di questo termine – politica – visto che le strampalate decisioni vengono prese alla rinfusa volando sopra al parlamento europeo, ai governi nazionali per non parlare di un minimo coinvolgimento dei popoli d’Europa. Van der Layen & Co. sembrano, infatti, non sentirsi investiti di alcun mandato, ma piuttosto temporanei proprietari del vapore e perciò autorizzati a fare quel che meglio credono. In questo delirio di oche spaventate, ad esempio, ci tocca sentire l’Alto Rappresentante per la Politica Estera, Kaja Kallas che a Washington, tre giorni fa, ospite di un convegno organizzato dall’Hudson institute se ne esce con:”…se l’Europa non può sconfiggere la Russia, come può pensare di sconfiggere la Cina?

Sconfiggere? La Russia? La Cina? Ma qualcuno ha chiesto a questa intemerata signora in nome e per conto di chi sta parlando? Si rende forse conto la Giovanna D’Arco che Russia e Cina non sono nemici e che, soprattutto, hanno una scala di potenza superiore a quella europea di almeno due ordini di grandezza? E si rende conto che quelle parole in bocca ad un ministro degli esteri o suo simulacro sono una bestemmia? In apparenza no.

La possibile spiegazione di tutto questo – oltre alla pochezza della classe dirigente europea – è che oltre a non sapere cosa fare essa sia ancora rimasta al vecchio spartito, quello che vedeva la Russia implodere, l’Europa trionfare e l’Ucraina riprendersi tutto il maltolto. Insomma, Zelensky e Von der Leyen stanno cantando una canzone che neppure il maestro d’oltreoceano ha più nel repertorio. È tempo di ripensare con attenzione a che tipo di comunità vogliamo e possiamo permetterci e di che tipo di persone possono essere in grado di guidarla. Oggi siamo tutti seduti allegramente su questo pullman che, tornante dopo tornante, caracolla per una strada di montagna. Ah, dimenticavo, alla guida c’è uno scimpanzé.